Uno scontro con la Cina farebbe male al Made in Italy
Nella guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca l’economia cinese, considerata la sua forte dipendenza dalle esportazioni, appariva tra le più vulnerabili. In realtà, i costi maggiori sembrano oggi ricadere proprio sugli Usa

Nella guerra commerciale scatenata il 2 aprile dalla Casa Bianca l’economia cinese, considerata la sua forte dipendenza dalle esportazioni, appariva tra le più vulnerabili.
In realtà, i costi maggiori sembrano oggi ricadere proprio sugli Stati Uniti, il cui governo ha evidentemente sottovalutato il complesso intreccio di relazioni commerciali, industriali e finanziarie che tiene assieme l’economia mondiale.
Basti pensare che il 60% delle esportazioni cinesi nel settore high tech e il 30% nell’industria automotive sono attribuibili a gruppi multinazionali stranieri, innanzitutto statunitensi.
Imporre dazi elevati alle importazioni dalla Cina significa, perciò, aumentare i prezzi di beni di ampio consumo e mettere in ginocchio industrie chiave dell’economia americana.
Questo non significa negare l’esistenza di squilibri internazionali creati dalla fenomenale crescita cinese.
Tuttavia, tale problema non può essere affrontato in modo unilaterale.
Tanto meno possiamo permetterci di sacrificare i molti benefici economici della globalizzazione – prezzi vantaggiosi e maggiore varietà di beni e servizi per i consumatori, nuove tecnologie, incentivi all’efficienza e all’innovazione – sull’altare di una disputa tra superpotenze che dovrebbe, invece, essere governata all’interno di schemi cooperativi.
L’interesse dell’economia italiana ed europea – che dipendono dagli scambi internazionali più di ogni altra area al mondo – non può che andare in questa direzione.
In particolare, proprio i rapporti con la Cina dovrebbero venire affrontati in modo più pragmatico e responsabile rispetto all’ipotesi di decoupling che da qualche tempo si è affacciata nel dibattito politico.
Ci sono almeno tre motivi che dovrebbero spingerci razionalmente a rifiutare tale ipotesi.
La prima riguarda il legame della capacità produttiva cinese con le nostre imprese.
L’economia cinese assicura oggi poco meno di un terzo dell’intera produzione manifatturiera mondiale, un valore che era difficile immaginare anche solo due decenni fa, quando la Cina entra nel Wto con il trattamento di paese in via di sviluppo. Dal 2000 ad oggi il Pil cinese passa da 1.200 miliardi di dollari (equivalenti allora all’economia italiana) a 20 trilioni (ormai a ridosso dell’economia americana).
Il principale motore di questa crescita è stato l’export, che nello stesso periodo ha visto aumentare la sua quota sul commercio mondiale dal 4 al 12%.
Tuttavia, come abbiamo già osservato, gran parte di questo export è prodotto da imprese occidentali che hanno effettuato investimenti diretti in Cina o che hanno sviluppato relazioni con fornitori cinesi.
Senza queste forniture molte imprese del Nord Est non sarebbero oggi in grado di competere sui mercati internazionali.
Ad esempio, nessun marchio italiano di biciclette potrebbe avere in catalogo i preziosi telai in composito e la componentistica più evoluta senza accedere alla capacità produttiva dislocata tra Guangdong e Taiwan.
Un altro esempio è lo sviluppo dell’occhiale intelligente da parte di Luxottica, la più grande impresa manifatturiera del Nord Est: la capacità di miniaturizzare i componenti elettronici è un fattore chiave degli ecosistemi tecnologici cinesi, senza il quale tale innovazione diventerebbe difficilmente realizzabile.
Il secondo motivo è la crescita della domanda di beni e servizi evoluti che possono essere serviti dalle nostre imprese.
Già oggi un quinto della popolazione cinese – 300 milioni di persone – esprime un livello di consumi equivalenti a quelli europei, quota destinata a crescere come conseguenza della crescita e dei cambiamenti strutturali che la Cina sta attraversando, che potrebbero oggi premiare soprattutto le imprese italiane specializzate in beni finali di qualità – dalla moda all’arredo-casa – nella misura in cui la produzione cinese si sposta invece verso tecnologie di punta e beni strumentali.
Il terzo motivo è geopolitico, e attiene all’esigenza vitale di coinvolgere un attore di tale rilievo nella gestione comune di politiche fondamentali, dalle condizioni della pace alle nuove regole del commercio mondiale, dal clima alla salute globale, dal controllo dell’IA allo sviluppo economico e sociale dell’Africa.
Se molti di questi dossier appaiono al momento fuori portata, alcune iniziative più circoscritte possono tuttavia aiutare ad incamminarci in un sistema di relazioni più equilibrate con l’economia cinese.
La prima riguarda un accordo sulla reciprocità e la sicurezza degli investimenti esteri, che possono svilupparsi solo a condizione di un sistema di regole e controlli oggi molto sbilanciato a favore della Cina.
La seconda riguarda il circuito internazionale del capitale umano, che ha in Cina – con un milione di universitari che studiano oltre frontiera – la principale area di domanda al mondo.
L’attivazione di scambi di studenti e ricercatori può diventare un fattore di cooperazione e conoscenza reciproca, condizione fondamentale per sviluppare anche altri temi comuni. —
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