Dare il nome a una lingua: il bersaglio è sbagliato
Il caso francese. Le lingue non si piegano ai progetti politici perché servono naturalmente altri fini. Sarà divertente immaginarlo questo nuovo nome, che si sa già in partenza lascerebbe tutti scontenti. Io propongo “Frangolese”, in omaggio all’Africa, molto francofona, oppure “Rifrancese”, in nome della rifondazione linguistica post-colonialista

«Se qualcuno riuscisse a trovare un altro nome per definire la nostra lingua, sarebbe il benvenuto» ha dichiarato il leader della sinistra francese Jean-Luc Mélenchon in un dibattito parlamentare, spiegando che la lingua di Molière ormai non è più solo dei francesi, ma è parlata da tantissimi stranieri e quindi il suo nome cozza con la realtà dei suoi locutori.
Gli ha subito replicato il neogollista di origini tunisine Gérard Darmanin: «La lingua francese appartiene ai francesi. È il nostro patrimonio più prezioso. È soprattutto il patrimonio dei francesi più modesti ed è anche la lingua dell’integrazione, che i miei nonni hanno imparato per rispetto verso la Francia. Quello che propone Mélenchon è la decostruzione nazionale».
Queste due opposte visioni della lingua stanno suscitando in Francia un aspro dibattito che tocca l’identità e l’essenza dello Stato nazionale.
Darmanin intende la lingua francese non solo come connotazione identitaria, ma anche come strumento di riscatto sociale e di adesione al progetto politico di uno Stato, la Francia. Mélenchon la intende invece come la lingua condivisa di una vasta comunità di parlanti al di là della nazione francese.
E aggiunge: «Se vogliamo che il francese sia una lingua comune, deve essere una lingua creola». Quindi, di per sé stessa un miscuglio, una lingua ibrida e cangiante, nutrita dalle culture che la parlano assieme ad altre lingue.
Chi ha ragione? Entrambi e nessuno quando si mescolano lingua e politica. Il francese è parlato da 444 milioni di persone nel mondo ed è ovvio che non è più solo la lingua della Francia, come l’inglese non è più solo la lingua del Regno Unito né lo spagnolo solo della Spagna.
Lingue che sono nate identificandosi prima con un popolo, poi con uno Stato e che ora si sono diffuse nel mondo senza coincidere più con uno specifico progetto politico né una ben definita comunità di parlanti, trovano infine la libertà di appartenere solamente a chi le parla, che in fondo è la condizione naturale di ogni lingua. S
enza contare che già adesso queste lingue internazionali, come altre, stanno producendo nuove varianti, come fece il latino moltiplicandosi nelle lingue romanze. Non c’è più quindi il francese, ma tanti francesi. E sarebbe assurdo cercare quello vero.
Darmanin ha ragione quando dice che il francese è servito ai suoi genitori per accedere alla società francese e a quell’insieme di diritti e doveri che li ha fatti cittadini. Ma ha ragione anche Mèlenchon quando dice che il francese non è più solo dei francesi.
Cadono entrambi nel torto quando vogliono pilotare la lingua francese, il primo per farne un identificante nazionale, il secondo per sottrarlo alla sua storia e farne una lingua neutra, un neo Esperanto dell’uguaglianza fra i francofoni globali.
Le lingue non si piegano ai progetti politici perché servono naturalmente altri fini. Sarà divertente immaginarlo questo nuovo nome, che si sa già in partenza lascerebbe tutti scontenti. Io propongo “Frangolese”, in omaggio all’Africa, molto francofona, oppure “Rifrancese”, in nome della rifondazione linguistica post-colonialista.
Ma noi italiani invece come siamo messi a lingua? Di chi è l’italiano? Almeno in questo la nostra lingua parte avvantaggiata nella disgregazione politica e culturale in atto nel mondo. Perché l’italiano è sempre stata una lingua fluida che si muove assieme ai suoi dialetti e brulicante di varietà rifugge la forma univoca che invece opprime i francesi ossessionati dall’illusione della precisione. La nostra lingua non ha bisogno di cambiare nome perché già non è una sola, ma ne contiene tante.
Anche se io non capisco il dialetto cosentino o bergamasco, comunque li sento roba mia. Tanto più che ci sono stranieri che li parlano questi dialetti, assieme al mio, e si sentono italiani per questo. Parlare una lingua vuol dire fare parte della comunità che in essa si esprime e in quella lingua avere dei diritti, anche quello di piegarla al nostro sentire, di fare degli errori, di travasarci dentro la nostra esperienza e contribuire così alla sua vitalità, alla sua capacità di raccontare la molteplicità del vivere umano.
Poco importa dunque il nome che si dà a una lingua, perché, come scriveva Dante: «Opera naturale è ch’uom favella/ ma così o così, natura lascia/ poi fare a voi, secondo che v’abbella».
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