La ricetta Ue per l’Italia che ristagna

La nuova crescita dipende da noi e dal concerto con l’Europa. La risposta è (anche) nei programmi d’innovazione che valicano i confini nazionali. Per questo la Commissione vorrebbe ripensare il Bilancio settennale Ue, con più risorse proiettate nel futuro

Marco ZatterinMarco Zatterin
La sede dell'Europarlamento a Strasburgo
La sede dell'Europarlamento a Strasburgo

«L’economia europea continua a crescere nonostante il contesto ancora difficile», assicura la Commissione Ue. Significa che la macchina continentale reagisce alla rivoluzione commerciale scatenata dal post globale Donald Trump, e anche alla guerra in Ucraina e alle crisi, geopolitiche e no, che minacciano il nostro essere quotidiano.

Le previsioni d’autunno dicono che l’Eurozona chiuderà il 2025 con un Pil in aumento dell’1,3%, dato magro da non buttare via, perché segnala la tenuta continentale e «la capacità di saper navigare fra choc senza precedenti». L’anno che sta per arrivare promette continuità senza garantirla e inflazione sotto controllo, sebbene deficit e debiti vadano all’insù. Tutto bene, ma non benissimo, soprattutto per l’Italia. Un gran Bel Paese dove il prodotto interno è stanco (+0,4%) e sarebbe in rosso se non fosse per il Pnrr, ovvero i prestiti e i doni accordatici dai partner di Bruxelles.

Gli esercizi statistici valgono per i segnali che mandano più che per l’affidabilità reale. Nel nostro caso, dai numeri traspare un sistema gracile e/o in apparente metamorfosi. Il quadro racconta un’economia manifatturiera strutturalmente fiacca, che vede sgretolarsi l’export e si piega al volere dell’import che ha sottratto 0,7 punti alla crescita. Da noi tirano i servizi, mentre declina la resa del lavoro, come dimostra l’aumento degli occupati che supera il valore aggiunto: se più fanno meno, ognuno porta a casa una fetta di prodotto più magra, ed ecco la minore produttività, male storico della Penisola in questo complessissimo secolo.

La Commissione apprezza il governo per come ha imbrigliato i conti pubblici (possibilista sull’uscita anticipata dalla procedura di deficit), poi nota che la crescita occupazionale rallenta e rileva che i salari si riprendono «gradualmente». Torna in mente il proverbio giapponese secondo cui, quando qualcosa non va, focalizzarsi sulla soluzione è più utile che cercare il colpevole (si può fare in un secondo tempo). Se l’Italia sta archiviando il celebrato “made in” per mutare in una economia di servizi, il governo dovrebbe concentrarsi su come favorire la transizione e renderla indolore.

Oppure, al contrario, stabilire che i servizi servono - eccome! -, ma che il nostro Dna può ancora darci splendide soddisfazioni, quindi impegnarsi a sostegno delle imprese e di chi lavora, con strategie di lunga lena, interventi fiscali e amministrativi, più che una tantum con cui non si va lontano.

La nuova crescita dipende da noi e dal concerto con l’Europa. La risposta è (anche) nei programmi d’innovazione che valicano i confini nazionali. Per questo la Commissione vorrebbe ripensare il Bilancio settennale Ue, con più risorse proiettate nel futuro. È qui che rispuntano i “Frugali”, i Paesi che non intendono pagare un euro in più per gli altri – si va dall’Olanda alla Germania – per questioni di principio e per non perdere il consenso dell’elettorato euroscettico.

Puntano i piedi e dicono «nee» e «nein». In questo modo, rischiano di grippare il già snervato motore europeo. Non senza imbarazzo italiano, visto che una parte del governo vuole meno Europa mentre l’altra sa che ogni aiuto comunitario in più per sostenere lo sviluppo (vedi Pnrr) è manna celestiale. Verrà il momento di decidere da che parte stare, con la crescita o con l’ideologia. La soluzione, nella fattispecie, non è scontata. Il colpevole, se andrà male, quello sì. 

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