Il pendolo Ue e la spinta dei populisti

Il patto a dodici stelle fra popolari, socialisti-democratici, liberali e verdi dell’Europarlamento che ha confermato la tedesca von der Leyen alla guida della Commissione Ue, poco più di un anno fa, adesso non c’è più

Marco ZatterinMarco Zatterin
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea

C’era una volta la Maggioranza Ursula, il patto a dodici stelle fra popolari, socialisti-democratici, liberali e verdi dell’Europarlamento che ha confermato la tedesca von der Leyen alla guida della Commissione Ue poco più di un anno fa. Adesso non c’è più, non come prima.

Giovedì si è svelata una nuova coalizione formata da popolari, conservatori e destra euroscettica, formazione analoga a quella composta dalle forze che sostengono il governo italiano (Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega). Maggioranza Giorgia, l’hanno ribattezzata, ed è l’Europa che cambia, che si apre al populismo e, attenta alle sirene sovraniste, accoglie anche quelli chi hanno chiesto di essere eletti per «sabotarla da dentro».

Che sia meglio o peggio dipende dai punti di vista che, finché si vota, sono tutti rispettabili. Ma ciò non toglie che i padri fondatori della Comunità, da Einaudi a Schuman, si stanno probabilmente rivoltando nella tomba.

Il Parlamento europeo, unica assemblea sovranazionale basata sul suffragio universale, è da sempre governato dalle grandi famiglie politiche: popolari, socialisti e liberali, appoggiati dai verdi. L’esito della tornata 2024 ha creato dinamiche differenti. In gran parte dei Paesi europei, la destra-destra vanta in media un terzo degli elettori, conquistati sfruttando le debolezze degli schieramenti tradizionali e trasformando l’Europa nel capro espiatorio di ogni male.

Il Ppe, vincitore della tornata, ha cambiato strategia e introdotto un gioco di concordanze variabili a Strasburgo. Si è unito a SocDem & Co. per eleggere la “sua” Ursula, quindi ha cominciato a picconarla da dentro e a tessere intese con Conservatori e Patrioti, sino al voto dell’altro ieri sulla sostenibilità delle imprese in cui si è imposta la “formula Giorgia”.

I popolari minimizzano, dicono che non è successo nulla. Falso. Il loro capo a Strasburgo, Manfred Weber, è un cinico pokerista che balla fra europeismo e scetticismo per difendere la leadership; alla lunga, spera di assorbire i voti radicali, ma potrebbe perdere parecchi moderati. Gli accantonati socialisti sono scioccati: in ritirata, rischiano molto nel patto con i popolari e rischiano tutto se non reagiranno, consapevoli però che rompere con il Ppe li taglierebbe dai grandi giochi e li indebolirebbe ulteriormente.

La destra dei “patrioti” esulta, si sente al comando e vuole restarci: potrebbe ammorbidire le posizioni anti-Ue e democristianizzarsi (come FdI), o rimanere nazio-isolazionista (come la Lega) e allora togliersi la sedia da sotto, a meno che non si azzeri l’Ue e si diventi russi oppure americani. Nel frattempo, Ursula la presidente, non amata nemmeno dai suoi, è attesa da altri mesi traballanti.

Il male di questo scorcio di secolo è l’incertezza globale alimentata dalla sindrome del brevissimo termine che infetta la Politica. Al punto in cui siamo, bisognerebbe stabilire se si crede che un’Europa ben costruita sia la ricetta contro le crisi, oppure se davvero ogni Paese voglia avanzare perlopiù da solo.

La risposta è nella domanda, tuttavia un terzo circa dei cittadini non la vede così. Non possono che essere gli elettori a decidere, però parlamenti e governi dovrebbero guidare, non inseguire. Cosa che, ora, non accade.

Così non si cresce, e si erode il tesoro di pace e sviluppo del passato, consumato nel breve termine come se non ci si fosse l’ambiguo futuro che, auspicabilmente, non mancherà di bussare alle nostre case.

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