Allargamento Ue: nuove adesioni per un’Europa forte
La guerra alle porte d’Oriente, le turbolenze geopolitiche e le incertezze economiche non fermano i piani di allargamento

Montenegro a bordo entro il 2028, Albania l’anno dopo. La guerra alle porte d’Oriente, le turbolenze geopolitiche e le incertezze economiche non fermano i piani di allargamento dell’Unione europea che, nei documenti ufficiali, continua a dirsi certa che «essere più grandi sia una garanzia per tutti».
Oggi la Commissione Ue presenta il rapporto sulla possibile/probabile adesione di nuovi soci al Club di Bruxelles, un testo in cui pragmatismo e ambizione invitano a credere che il sogno di una più ampia famiglia a dodici stelle resti fattibile. Lo rivela l’approccio realista ai casi difficili, il rinvio del dossier Ucraina, il congelamento di quello serbo e il permanere dello stop alla Turchia di Erdogan deciso nel 2018. «Sia chiaro – spiega una fonte diplomatica –: vogliamo una comunità più larga e inclusiva, ma si deve essere sicuri che stia in piedi e non sia ostaggio di nessuno: bisogna evitare gli errori del passato». Ad esempio, si pensa a una norma “no-Orbán”, con un periodo di prova nel quale la violazione delle regole potrebbe condurre all’espulsione.
La lista dei candidati contiene formalmente nove nomi. Il Montenegro è in pole position, è al passo con le riforme e potrebbe chiudere tutti i protocolli di negoziato con l’Ue nel 2026, per poi aderire nel giro di due anni. Il premier albanese Edi Rama, socialista, ha impresso una netta accelerazione alla trattativa con Bruxelles e porta un anno di ritardo rispetto a Podgorica, anche se due dossier cruciali – agricoltura e coesione – non sono stati ancora aperti.
La Commissione è persuasa che entro il decennio l’Unione potrebbe essere a 29 Stati, soglia alla quale sembra destinata a fermarsi, perché il dialogo con la Serbia del populista Vučić tentata dalle sirene russe, e con la Macedonia del Nord in mano ai nazionalisti, alterna diplomazia e incomprensioni, il che disegna un interrogativo sui turbolenti Balcani occidentali nel sodalizio europeo. «Se non le integriamo le perdiamo – confessa una fonte diplomatica -, occorre essere decisi e non dimenticare che la posta in gioco è molto più rilevante del trattato bilaterale».
La Georgia, come la Bosnia Erzegovina, non è mai entrata in partita. La Commissione dirà che Moldavia e Ucraina – candidate a metà 2022 - avanzano spedite nel calendario delle riforme promesse, eppure non è l’ora e nessuno scommetterebbe un cent sul loro rapido accesso all’Unione, nemmeno se finisse subito la guerra d’aggressione di Putin. Di Turchia non se ne parla, se non nei dibattiti accademici alla voce “chimere”: Ankara ha presentato la domanda nel 1987 e negozia da 26 anni.
Che si ragioni ancora di allargamento in Europa è un indice di vitalità e di resistenza al cambiamento del clima politico planetario in cui l’Ue rischia di essere schiacciata fra Cina e Usa, mentre conforta la consapevolezza dei rischi di gestione di un condominio più affollato. Tuttavia, non è detto che succeda come e quando previsto, e il pericolo è che arrivati a Trenta non funzioni più nulla.
Tenere le porte aperte è un nobile proposito. Ne deve seguire un altro, quello delle riforme interne necessarie a far girare un’Unione molto più grande. Senza il primo, non si fa il secondo. Senza il secondo, si ammazza il primo. Ma è chiaro che, se non cambiano le regole di convivenza, il voto all’unanimità per cominciare, qualunque nuovo assetto numerico sarebbe un passo decisivo verso il crollo dell’Europa come l’abbiamo conosciuta dal 1957 a oggi. Vedete voi se conviene. E a chi. —
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