Porti, la riforma che svuota l’autonomia regionale
L’Italia non ha bisogno di una Porti d’Italia, ma di sei Autorità: il rischio è di restare ai margini delle catene logistiche globali

Mentre la “Lega di lotta” di Zaia e di Fedriga si batte per un po’ di autonomia differenziata in più la “Lega di governo” di Salvini cancella la competenza condivisa delle Regioni sulle infrastrutture portuali. Il paradosso è servito.
Mentre il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia investono enormi capitali politici nell’autonomia differenziata, il governo sfila loro da sotto il naso il controllo del futuro dei porti di Venezia e di Trieste.
Trattamento, peraltro, non diverso da quello riservato a tutti gli altri porti italiani dall’accorpamento delle decisioni relative alle infrastrutture, alla promozione e al marketing dell’intera rete dei porti nazionali in un’unica società per azioni, la Porti d’Italia S. p. A. che risponde solo al governo. La bozza di riforma prevede che questa società, ricca di una concessione di 99 anni, prenda in mano tutte le infrastrutture strategiche dei sedici sistemi portuali.
La Porti d’Italia è lo strumento con il quale il governo accentra e depotenzia le Regioni dopo essersi liberato del controllo del Parlamento con la rinuncia già sancita per legge a inquadrare le sue politiche trasportistiche di settore, come quella portuale, in un Piano Generale dei Trasporti e della Logistica. Il “capriccio del Principe” sulle priorità infrastrutturali di trasporto italiane è garantito. Almeno fino a che un nuovo Principe non vorrà farsi valere rovesciando decisioni che avrebbero invece bisogno di stabilità.
Ma la riforma annunciata dei porti va anche oltre, perché le autonomie cancellate sono due: quella territoriale delle Regioni e quella funzionale delle Autorità di Sistema Portuale. L’autonomia territoriale è quella garantita alle Regioni dall’articolo 117 della Costituzione che attribuisce loro competenza concorrente su “porti e aeroporti civili” e “grandi reti di trasporto”.
La riforma proposta riduce questa previsione all’espressione collettiva, di tutte le Regioni assieme, dell’intesa sul decreto governativo che fissa le priorità strategiche nazionali. E poi poco più: solo pareri non vincolanti su questioni marginali; tre rappresentanti su ventidue nella Conferenza nazionale che “coordina” le Autorità di sistema portuale; nessun ruolo nell’accordo di programma quinquennale che decide sui singoli investimenti (l’accordo è stipulato solo tra Ministero e Porti d’Italia senza Regioni che non sono nemmeno sentite). Insomma l’esercizio di una competenza costituzionale che riduce le Regioni a mere spettatrici.
Non va meglio alle Autorità di sistema portuale, nate trent’anni fa per liberare sistemi portuali allora ingessati e metterli in condizione di competere tra loro, ma anche con quelli del mar del Nord oltre che con quelli mediterranei, spagnoli e greci. Trent’anni di autonomia che ha dato buoni frutti; e che aveva oggi solo bisogno di irrobustirsi con la revisione del numero e dei confini delle Autorità per approssimarli a quelli dei loro mercati rilevanti, dove poter regolare anche i processi di integrazione verticale dei grandi carrier.
Invece la voglia di accentramento statale, inevitabilmente burocratico e insufficiente rispetto alla scala europea e mondiale delle reti marittime e portuali, depotenzia colpevolmente queste autonomie. Il primo colpo lo ha dato loro la riforma Delrio del 2016 che mette guinzaglio e museruola ai porti impedendo loro di esprimere ogni energia competitiva con l’introduzione del “potere di indirizzo” ministeriale che rende di fatto le Autorità delle direzioni generali periferiche del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti.
La riforma odierna completa l’opera con Porti d’Italia spa che cannibalizza le Autorità assorbendone una quota di personale e le impoverisce finanziandosi con il prelievo forzoso di quote delle loro entrate. Autorità portuali ridotte a gusci vuoti confinati a gestioni ordinarie senza strategia, risorse o autonomia decisionale. Ne vale la pena? Si può fondatamente dubitarne. La riforma copia quella spagnola e la sua società Puertos del Estado. Ma è un trapianto che non regge.
I porti spagnoli, scali che si affacciano sullo stesso mare (quelli baschi del Mar Cantabrico hanno solo rilevanza locale), possono essere gestiti come un unico sistema. Cosa che non vale per i porti italiani. Per motivi geografici: i porti tirrenici ed adriatici sono due sistemi distinti anche se in coo-petizione.
E per motivi strategici: l’Alto Tirreno (da Savona a Livorno) e l’Alto Adriatico (da Ravenna a Trieste) sono porti che possono contendere ai porti del mar del Nord e del Baltico i mercati europei; e che servono le catene logistiche che alimentano la manifattura italiana di esportazione oggi concentrata nel Nord Italia. Adriatico e Tirreno sono mari i cui porti servono mercati distinti e competono tra loro. Concorrenza da favorire, non soffocare.
E competitività con il mar del Nord da assicurare aumentando la scala dei due sistemi portuali. La portualità meridionale ha invece un’altra missione: favorire una rilocalizzazione nel Mezzogiorno della manifattura italiana in proiezione mediterranea, oltre che gestire il transhipment (meganavi oceaniche che trasbordano il carico su navi più piccole che si possono accontentare della scala modesta dei nostri porti).
È evidente che l’Italia non ha bisogno di una Porti d’Italia, ma di sei Autorità. Due per la proiezione europea (Alto Tirreno e Alto Adriatico, in competizione tra loro e con il Nord Europa). Quattro per quella mediterranea (Basso Tirreno, Basso Adriatico, Sicilia, Sardegna). Sistemi abbastanza grandi per massa critica e abbastanza autonomi da sfuggire al potere dei grandi carrier. Invece la riforma oggi sul tavolo accentra sedici sistemi frammentati sotto un’unica regia burocratica ministeriale. La gestione corporativa continua. I grandi armatori dettano le strategie.
I caricatori italiani pagano costi più alti. I porti italiani restano ai margini delle catene logistiche globali. Il risultato: irrilevanza sulle rotte oceaniche. I container continueranno a sbarcare a Rotterdam. Le merci italiane viaggeranno attraverso i valichi alpini per raggiungere scali stranieri. La “banchina d’Europa” resterà espressione senza sostanza.
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