Una scuola d’impresa a Nord Est per la futura classe dirigente

La quota di emigrati laureati è cresciuta significativamente nelle regioni del Nord Est: +16 punti percentuali in Veneto tra il 2011 e il 2022. Abbiamo un modello imprenditoriale che ha garantito crescita e coesione per decenni, ma oggi fatica a dialogare con le nuove generazioni

Giulio BuciuniGiulio Buciuni

 

Il Nord Est italiano è di fronte a un bivio. Le proiezioni della Fondazione Nord Est parlano chiaro: entro il 2040, la forza lavoro attiva potrebbe ridursi del 20% se non interverranno nuovi flussi migratori. Una glaciazione demografica che non riguarda solo i numeri, ma la capacità stessa del sistema produttivo di reggere la competizione globale. A questa emergenza si aggiunge un dato altrettanto preoccupante: la quota di emigrati laureati è cresciuta significativamente nelle regioni del Nord Est: +16 punti percentuali in Veneto tra il 2011 e il 2022. L’export per ora si mantiene ma chi guiderà le imprese di domani?

Serve una risposta sistemica, non difensiva. E serve ora. Uno studio recente della Fondazione Nord Est, condotto per Confindustria Belluno su 333 imprese manifatturiere con ricavi superiori ai 10 milioni di euro, restituisce un quadro eloquente: il 47,7% delle imprese del campione non ha alcuna donna nei propri consigli di amministrazione. Eppure, quando le donne siedono nei consigli, emergono pratiche più avanzate di welfare, attenzione alla conciliazione vita-lavoro, apertura a nuove forme di leadership. Nonostante ciò, il ritardo culturale resta ampio. Il 64,4% delle imprese indica il part-time come unica misura adottata per favorire il rientro post maternità; meno del 50% adotta forme di remote working; mentre i servizi aziendali dedicati all’infanzia sono quasi del tutto assenti. Solo il 7% delle imprese possiede la certificazione per la parità di genere, e appena il 3,8% redige un bilancio di genere.

Il problema non è dunque solo rappresentativo, è culturale. Abbiamo un modello imprenditoriale che ha garantito crescita e coesione per decenni, ma oggi fatica a dialogare con le nuove generazioni. La capacità di attrarre talenti è crollata. I giovani chiedono ambienti di lavoro aperti, sostenibili, capaci di riconoscere il merito e di valorizzare la diversità. E molte imprese, pur performanti, non sanno più parlare il linguaggio del futuro.

Non si tratta di inserire qualche giovane o qualche donna nei consigli di amministrazione per mettersi in regola. Si tratta di avviare un processo di rigenerazione profonda delle nostre classi dirigenti. Serve, in altre parole, formare una nuova generazione di imprenditori e imprenditrici che sappia coniugare competitività e responsabilità, innovazione e inclusione, crescita e impatto sociale.

Da tempo, anche su queste pagine, sosteniamo l’idea di una “scuola di impresa” radicata nei territori nordestini. Non un master teorico, ma un laboratorio permanente dove formazione, affiancamento e confronto con esperienze nazionali e internazionali possano generare nuova leadership. Un luogo dove si impari a programmare e a gestire il cambiamento, non a subirlo.

I grandi ecosistemi dell’innovazione nel mondo, da Boulder in Colorado a St. Gallen in Svizzera e a Galway in Irlanda, hanno al centro istituzioni formative di eccellenza, capaci di attirare cervelli e investimenti anche al di fuori dalle grandi città globali. Sono esempi che ci offrono una misura concreta di come sia possibile costruire leadership e futuro anche in quei contesti che non hanno una grande città metropolitana di riferimento, ma investono con lungimiranza e ambizione nell'alta formazione. In molte di queste realtà, le scuole di impresa non sono isolate ma dialogano con l’intero ecosistema territoriale: acceleratori, enti pubblici, fondazioni bancarie, imprese familiari.

È un modello ibrido, ma scalabile, che il Nord Est potrebbe adottare valorizzando le sue reti industriali e università diffuse. Non serve copiare la Silicon Valley, ma adattare l’idea alla nostra storia produttiva.

Il Nord Est ha le risorse, le reti e le competenze per guidare questa transizione. Ma servono visone, investimenti e il coinvolgimento delle imprese private. Serve il coraggio di superare l’autoreferenzialità e di investire in una nuova stagione imprenditoriale. Perché oggi innovare non significa solo adottare nuove tecnologie. Significa rinnovare profondamente la cultura d’impresa, riconoscendo che il benessere organizzativo, l’inclusione e la formazione continua non sono costi, ma investimenti strutturali. E che senza una nuova classe imprenditoriale, capace di tenere insieme produttività e coesione, la competitività del Nord Est difficilmente sarà sostenibile nel lungo periodo. 

 

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