Trump al bivio: stare da solo o con l’Europa
Il presidente Usa ha solo due scelte: restare solitario in balìa delle potenze alternative del Grande Oriente oppure fare squadra con l’Europa e provare a ribilianciare gli equilibri internazionali


L’effetto concreto del super vertice in Alaska è stato – sinora - quello di rimettere Vladimir Putin saldamente al centro della scena globale. Forte dello sdoganamento servitogli da Trump, lo zar di Mosca ha partecipato con piena titolarità al summit cinese dell’autoproclamato «Sud del Mondo», conclave che non ha esitato a definire «un bullo» l’inquilino della Casa Bianca, e a puntare l’indice contro il protezionismo made in Usa.
Il presidente americano, irritato, ha farfugliato qualcosa sul web, ma adesso ha solo due scelte: restare solitario in balìa delle potenze alternative del Grande Oriente; oppure, fare squadra con l’Europa e cercare di ribilanciare, con un’azione corale, gli equilibri strategici planetari per vedere da vicino l’effetto che fa.
Quest’ultima, sarebbe la mossa più ragionevole. Ma non è detto che The Donald comprenda l’esigenza né che i Ventisette abbiano l’unità, la forza politica e il coraggio per essere all’altezza delle difficoltà che un ritorno in gioco comporta.
Dal fronte dei Volenterosi arrivano segnali di compattezza. Il francese Macron annuncia «ventisei Paesi disposti a inviare truppe in Ucraina come forze di riassicurazione fin dal giorno seguente alla firma di una pace». Non è chiaro chi siano, ma poco importa. Qualunque dispiegamento di fanti, satelliti e carri verrà dopo un cessate il fuoco e un armistizio fra Kiev e il Cremlino, circostanze che non si vedono approssimarsi nemmeno con il più potente dei telescopi.
L’impressione è anzi che Putin non pensi affatto a posare le armi e utilizzi le trattative per guadagnare terreno, non avendo altro obiettivo se non fiaccare l’odiato Zelensky. A ben vedere, il sospetto è che Putin sia determinato a ribaltare una delle più celebri locuzioni latine e imporre un viscido si vis bellum para pacem, ovvero se vuoi la guerra negozia la pace. Il numero record di bombe che cade sui civili ucraini spinge in questa direzione.
Quando si parla di militari e mezzi in Donbass e dintorni si ragiona su un orizzonte temporaneo che ha poco a che fare col domani; la decisione potrebbe essere presa fra mesi, se non di più. Ci sono tutti i margini per lenire le fratture interne ai singoli Paesi: l’Italia può, ad esempio, continuare a rivendicare il merito di aver lanciato l’idea della protezione simil articolo 5 Nato (chi attacca Kiev attacca i Volenterosi) e insistere nell’assicurare che non saranno mandati nostri soldati sull’ex fronte, astuto posizionamento che vale sino a prova contraria, dunque può essere reiterato lungamente senza perturbare l’ala più populista del governo.
La sostanza della presa di misure sulle “garanzie di pace” è un’altra. Serve a valutare le possibilità reali di ricomporre il fronte occidentale per la pace, dove non c’è molto di nuovo e poco di buono.
Posto che il trionfo della volontà non porta mai bene agli esseri umani, si potrebbe lavorare a imporre il buon senso. Usa e Ue insieme, dialoganti con l’India e la Cina, sapendo che della seconda non ci si può fidare sino in fondo, ma anche che è un partner irrinunciabile.
Insieme, americani e europei anche per far ragionevole muro e pressione per Kiev, contro Mosca e i suoi missili a lunga gittata. Perché con l’Ovest diviso, e l’unione del «Grande Sud» che ama le parate e l’espansionismo, il Pianeta non diventerà mai un posto migliore. Certo, non per chi abbia dalle nostre parti. E, con tutta probabilità, nemmeno per gli altri.
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