Il treno Europa non ha più locomotive
Germania e Francia vanno a rilento: l’economia di Berlino è la peggiore post pandemia, mentre Parigi deve fare i conti con una manovra all’insegna dei risparmi e l’opposizione che promette battaglia


Le locomotive europee sono ferme. La Germania ha rivisto al ribasso il Pil del secondo trimestre, registrando un calo di 0,3 punti percentuali a fronte dello 0,1 annunciato in precedenza: l’economia di Berlino è la peggiore in Europa dalla pandemia, periodo nel quale l’espansione reale è risultata piatta. Malata anche la Francia, Paese in cui la crescita è stata di cinque punti in cinque anni sotto la media dell’Eurozona.
L’Italia è più veloce, con il 6 per cento reale dal 2019. Un dato decente, eppure non c’è da fare festa. Abbiamo il doping miliardario del Pnrr, che ha gonfiato il debito e i costi della sua gestione. Senza la spinta dei nostri principali partner, imbrigliati da mali strutturali e politici, sarà tuttavia difficile accumulare la ricchezza necessaria per rilanciare un sistema di talenti, ma troppo debole perché il livello di vita generalizzato si elevi alla soglia del benessere diffuso di cui abbiamo bisogno per dirci in salute. Soprattutto ora che i dazi Usa aumentano insidie e incertezze.
I tedeschi soffrono la fiacca produzione industriale, l’indebolimento delle costruzioni, la discesa della domanda interna: nella prima parte dell’estate, non ha girato neanche il turismo. Il cancelliere Merz aveva detto in giugno che «le cose stavano cambiando per meglio». S’è sbagliato e non è il solo. La repubblica federale paga il caro energia post Ucraina, la pressione della Cina, il ridotto volume di investimenti in infrastrutture e digitalizzazione, la ritirata qualitativa della forza lavoro e l’invecchiamento della popolazione. Sono tutti malesseri che minacciano anche l’Italia, la quale riesce però a fare meglio per la qualità del prodotto, l’attrazione per i visitatori stranieri e la spinta del Pnrr (per quanto inferiore al potenziale). Alla lunga, senza le necessarie riforme, la sburocratizzazione e un intervento sulla produttività, tutto ciò continuerà a costituire un argine piuttosto che una economia che avanza. Se va bene.
Il premier francese François Bayrou, che governa senza maggioranza e vive sotto la spada di Damocle di una nuova tornata elettorale, ha illustrato le linee guida della manovra per il 2026. Il piano, che prevede risparmi per 43,8 miliardi di euro e l’eliminazione di due giorni festivi, sarà sottoposto a un voto di fiducia l’8 settembre (a ciascuno il suo!) con destra e Gauche pronte al «no!». La stima per il Pil annuale è stata sforbiciata allo 0,7 per cento, previsione che non assorbe per intero la volatilità seguita ai dazi imposti dalla Casa bianca. Non ci fosse abbastanza caos, l’opposizione promette battaglia, mentre i sindacati e la sinistra hanno proclamato uno sciopero per il 10 settembre: il 58 per cento dei francesi appare favorevole al blocco del Paese in quella data.
Mario Draghi ha definito il 2025 come l’anno in cui l’illusione europea di poter contare grazie alla forza di 450 milioni di consumatori è svanita. Il suo piano di rilancio è al palo perché le ventisette capitali non ci stanno lavorando, distratte perlopiù da beghe interne. Senza la forza dell’Unione nessuno uscirà più ricco di qui. Certo, non da solo. Senza gli amici americani, con due guerre alle porte, le economie emergenti disposte a farci fuori, e la demografia che rema conto il nostro stile di vita, sarà quasi impossibile salvarsi da soli. Essere orbi fra i ciechi, per chi potrebbe vederci benissimo, potrebbe rivelarsi una magrissima consolazione.
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