Prelievi equi nella morsa del consenso

Se tassare le banche per extraprofitti è giusto, perché non farlo anche sugli affitti brevi? Un’analisi tra equità, consenso e politica fiscale

Marco ZatterinMarco Zatterin
Il “teorema della coerenza” sugli extraprofitti: banche e affitti brevi, due pesi e due misure
Il “teorema della coerenza” sugli extraprofitti: banche e affitti brevi, due pesi e due misure

Potremmo chiamarlo il “Teorema della coerenza sugli extraprofitti”. In sintesi, recita che se un governo decide di tassare le banche perché ritiene che abbiano avuto degli utili straordinari non derivanti da una maggiore efficienza, bensì da una determinata situazione di mercato, allora non si vede perché lo stesso governo non dovrebbe aumentare il prelievo discendente dagli affitti brevi che, come è facile constatare, permettono guadagni ingenti e più ricchi di quanto avverrebbe in un contesto ordinario e tradizionale. In sintesi, il ragionamento porta a dire che se sono “extra” i primi, sono “extra” anche i secondi, pertanto sono entrambi scremabili, se così si vuole.

In realtà è tutto più complesso, perché, oltre alla lucidità di pensiero auspicata da chi tiene le redini di un Paese, entra in gioco l’amministrazione del consenso. Le banche, per motivi anche comprensibili, non sono in testa alla classifica della simpatia. Gravarle di imposte può essere controproducente per la credibilità finanziaria del sistema – qualcuno potrebbe pensarci molto prima di investire in Italia se osserva che le regole fiscali vengono cambiate in corsa -, ma inietta una dose di buonumore in una parte non irrilevante dell’elettorato.

Inutile argomentare che arricchirsi onestamente e nel rispetto della legge non è reato. Ma colpire i banchieri e riscuotere 5 miliardi (vediamo...) porta voti, oltre che sollievo ai forzieri dello Stato. In tal modo, gli extraprofitti sui colossi dell’economia sono da tempo cavallo di battaglia, spesso più promesso che attuato, di tutti gli schieramenti politici.

Sulle case i numeri cambiano. Gli immobili italiani destinati agli affitti brevi sono circa 500 mila e impattano sul Pil per 66 miliardi, quasi come la spesa pubblica per l’istruzione. Chi ha un secondo alloggio può decidere di affittarlo a un singolo inquilino ricavando 1.000 euro al mese, oppure renderlo disponibile per i viaggiatori incassandone due, tre o anche quattro volte tanto. Vale anche qui il principio che a fare soldi onestamente non si fa peccato, tuttavia è evidente che il vantaggio deriva dalla possibilità di profittare di una evoluzione straordinaria del mercato. È “extra”, dunque. Ed “extra” per “extra”, per coerenza, un governo può arrivare alla decisione di tassarla un po’ di più. Il padrone di casa otterrà solo “meno più”.

Se però l’offerta lungo la Penisola è di mezzo milione di locali si può affermare, probabilmente per difetto, che essa rappresenta altrettanti voti. E che la Politica può temere che penalizzarli può minare il sostegno dei cittadini e giudicare prudente un dietrofront, soprattutto se nella scrittura del bilancio prevale la gestione del momento sul lungo termine, e il pensiero delle urne su quello dello sviluppo diffuso.

Si può allora scommettere che la norma verrà modificata. Eppure restano questioni aperte. Posto che gli affitti brevi sconquassano il settore immobiliare, rendendo difficilissimo reperire un alloggio in locazione a prezzi accettabili, un buon governo dovrebbe intervenire, ripristinare l’equità e aiutare chi cerca un tetto, un giovane, un meno giovane, un’impresa, un commerciante. Se non si vuole colpire l’“extra”, si può riequilibrare il “normale”, favorendo gli affitti lunghi e la fiducia che essi ingenerano in chi li ottiene, perché è a casa che si comincia la giornata. Se si ambisce a giocare nel campionato della crescita, sarebbe un passo illuminato per curare la collettività e guardare lontano. —

 

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