Sinner e l’illusione del patriottismo
Nel mondo globale dello sport iperprofessionale, la bandiera è un accessorio di scena: si indossa per lo spettacolo, si sventola per contratto, poi si ripone con cura accanto ai gadget degli sponsor

Paolo Bertolucci l’ha detto senza giri di parole: «La gente pensa alla maglia azzurra, ma nel tennis non è così». Una frase che suona come un epitaffio. Con Jannik Sinner che rinuncia alla Coppa Davis per “riposarsi”, sembra chiudersi un’epoca: quella in cui un atleta rappresentava qualcosa di più del proprio talento ma incarnava il prestigio e la reputazione di tutto un Paese.
Sono lontani i giorni del film “Pane e cioccolata” dove Nino Manfredi emigrato e umiliato nella sua italianità stracciona, esplode di gioia nel bar svizzero al gol dell’Italia in tv.
Ma Sinner non è mica un traditore. È semplicemente un uomo del suo tempo. Nel mondo globale dello sport iperprofessionale, la bandiera è un accessorio di scena: si indossa per lo spettacolo, si sventola per contratto, poi si ripone con cura accanto ai gadget degli sponsor.
Le motivazioni sono altre: la carriera, la classifica, il rendimento, il guadagno. E forse è giusto così se abbiamo fatto dello sport un gigantesco mercato. Ma allora smettiamo di illuderci che ci sia ancora qualcosa di nazionale e patriottico nello sport.
Nel tennis e ancor più nel calcio la patria sembra non esistere più. Gli atleti viaggiano come uomini d’affari, con il loro staff e i loro manager. E passano indifferentemente da una squadra all’altra. Parlano inglese, vivono tra hotel e aeroporti e spesso risiedono a Montecarlo. Non per il mare, ma per le tasse: il nuovo patriottismo sportivo è fiscale più che nazionale.
È curioso che tanti campioni, una volta diventati icone nazionali, la prima cosa che facciano sia andarsene altrove per scansare le tasse. Senza nemmeno nasconderlo, come se fosse la più ovvia e naturale delle cose. Un bel paradosso nel Paese dalla più alta evasione fiscale nell’Unione europea.
Così, mentre i tifosi si emozionano per una maglia azzurra, chi la indossa pensa principalmente al proprio portafoglio e al proprio calendario. I veri campioni allora diventano quei milioni di patrioti anonimi che le tasse le pagano fino all’ultimo euro e tengono in piedi un paese che forse non li rappresenta più. Sono i fuori classe della sopravvivenza quotidiana, ma per loro non c’è podio.
Forse Sinner ha ragione, così va il mondo dello sport moderno. Ma noi allora dovremmo smettere di pretendere da lui un amore che non può esistere. E dovremmo cambiare anche il nostro modo di tifare. Non più per nazionalità, ma per affinità, per simpatia o chissà mai, anche noi per convenienza. Scegliamo un atleta che ci emoziona, che incarna la nostra idea di bravura, tenacia o semplicità, indipendentemente dal passaporto.
La patria nello sport, non c’è più. Non c’è più nemmeno nell’industria, con buona pace di chi compra auto di marca italiana credendo di contribuire così al nostro benessere nazionale. Forse la patria non c’è più nemmeno nella realtà. Ma resta il bisogno umano di condividere, di appartenere a qualcosa. Appartenere solo ai nostri gusti e alle nostre passioni private non può bastarci a lungo.
È vero anche che l’appartenenza ha bisogno di eroi e i campioni sportivi soddisfacevano questa esigenza incanalando nel tifo la foga tumultuosa del sentimento nazionale. Ma oggi siamo rimasti orfani anche di quelli.
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