Stato-Regioni, le partite ancora aperte con Roma
Il rapporto resta difficile e pesantemente sbilanciato a favore di Roma. La partita principale si disputa sul tema del federalismo fiscale: il centro trasferisce compiti in periferia accompagnandoli però con risorse inadeguate

Non c’eravamo mai amati. Capovolge la vecchia canzone di Armando Trovajoli e il celebre film di Ettore Scola, il rapporto tra Stato e Regioni: che da ieri, domenica 18 maggio, cerca di stabilire un diverso feeling nel festival “L’Italia delle Regioni”, ospitato a Venezia per la sua quarta edizione.
Un rapporto difficile dalle origini: prevista in Costituzione fin dal 1948, la partenza dell’istituto regionale è avvenuta solo ventidue anni dopo; e ce ne sono voluti altri sette per ottenere i primi poteri reali.
Da allora, il rapporto è rimasto pesantemente sbilanciato a favore di Roma; e solo i decreti Bassanini del 1997 hanno cercato di riequilibrarlo. Senza peraltro grandi risultati, se il contenzioso tra centro e periferia si riaccende ogni due per tre.
La partita principale si disputa sul tema del federalismo fiscale, in soldoni sul terreno di quanto lo Stato dà e quanto prende nei singoli territori.
Lo fa in modo vistosamente squilibrato fin dai primi tempi: al punto che un economista di valore quale Piero Giarda ha proposto il paradosso che il massimo grado di federalismo fiscale si è avuto ai tempi del fascismo, con il Testo Unico sulla finanza locale del 1931. Per contro, l’apice del centralismo fiscale si è registrato negli anni Settanta, con la riforma Visentini prima e i decreti Stammati poi.
Ma anche oggi la tendenza non cambia: con un centro che trasferisce compiti in periferia accompagnandoli con risorse inadeguate. E con modifiche solo annunciate: la legge-delega sul federalismo fiscale varata nel 2009 rimane ancora largamente inattuata.
Certo, anche le Regioni hanno i loro lati oscuri, e tutt’altro che marginali. I dislivelli di efficienza tra loro sono macroscopici e per certi tratti scandalosi. Sprechi e incapacità nella gestione dei consistenti fondi, europei e non solo, sono all’ordine del giorno. Le attuali dimensioni territoriali andrebbero radicalmente riviste: il Molise, per dire, ha meno abitanti di un quartiere di Milano.
Le stesse Regioni a statuto speciale necessitano di un’innovativa revisione dello spirito e della lettera dell’autonomia di cui godono. Ma detto tutto questo, l’istituto regionale rimane un caposaldo dell’architettura dello Stato: va reso efficiente, non mortificato.
Ha una rilevante carica simbolica il fatto che l’incontro di questi giorni si tenga in un Veneto che si è posto alla testa della battaglia autonomista, raccogliendo peraltro solo briciole: a otto anni dal referendum promosso dalla Regione, rivendicando 23 competenze, a oggi la montagna sta partorendo il topolino della sola Protezione Civile. E a Roma il percorso della riforma si muove a passo di lumaca e tra ostacoli seriali: con il rischio di arrivare (chissà quando…) a un risultato finale ampiamente mutilato.
La presenza oggi, 19 maggio, a Venezia del presidente Mattarella dà al Festival un plus di autorevolezza; e non c’è dubbio che il suo intervento ribadirà le ragioni sancite in Costituzione. È sulla ricaduta delle sue parole che è lecito avanzare dubbi. Perché il partito di gran lunga maggioritario, Fratelli d’Italia, presenta una genetica vocazione centralista, ribadita nel progetto di riforma costituzionale del premierato: basata su un ruolo del potere centrale ancor più marcato di oggi, a fronte di un impianto autonomista che rischia di rivelarsi labile nell’assetto finale; anche per deteriori calcoli elettorali, non solo del partito di Meloni.
Pure su questo, la scelta di Venezia come sede del confronto ha alto valore simbolico: una città che sprofonda. Più infausto richiamo non si poteva dare, per la derelitta autonomia. —
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