Kiev e la pace modello Gaza a firma Trump
Giovedì si riuniranno i capi di Stato e di governo dell’Ue, in un vertice i cui lavori preparatori trasudano incertezza, se non peggio, perché nessuno da queste parti – dietro le quinte, e viste le carte che si trovano in mano – pare adesso disposto a scommettere su un esito di concretezze


Nei corridoi di Palazzo Europa, quartier generale dei Ventisette a Bruxelles, circola un pensiero inquietante. Fra i diplomatici a dodici stelle si dice che, per Donald Trump, «Gaza e Kiev sono due parole di quattro lettere intercambiabili».
Giovedì si riuniranno qui i capi di Stato e di governo dell’Ue, in un vertice i cui lavori preparatori trasudano incertezza, se non peggio, perché nessuno da queste parti – dietro le quinte, e viste le carte che si trovano in mano – pare adesso disposto a scommettere su un esito di concretezze.
L’Unione tenta di tornare in gioco dopo il gracile accordo sul futuro della Palestina, mentre teme il trappolone ungherese sull’Ucraina.
Il viaggio di Zelensky a Washington è andato male, il presidente americano è passato dalla promessa dei missili Tomahawk alla sottolineatura di quanto orrende saranno le conseguenze se non si considererà la cessione dei territori conquistati dalla Russia.
La Casa Bianca sembra pronta a mollare l’aggredito, lasciando alla frammentata Europa la responsabilità di proteggere la vittima, i suoi diritti e se stessa: missione impossibile senza un Tom Cruise della politica in grado di tenere insieme un fronte, quello comunitario, debole e incrinato da tempo.
La bozza di conclusioni del summit condanna fermamente l’operato russo come chiedono i Paesi prossimi al fronte: Baltici, Polonia, Germania. Sono parole incoraggianti, questo sì. Eppure non ci sono state chiare dichiarazioni contro l’evenienza di congelare il conflitto com’è e chiuderlo lì, segnando la sconfitta di Kiev e dell’Europa che ha sostenuto la sua lotta contro lo zar Vlad. Incerti e non coesi, i Ventisette andranno difficilmente oltre affermazioni di principio e nuovi assegni a Zelensky per comprare armi in buona parte americane.
L’umore è che una svolta drammatica possa però arrivare presto, che si avvicini il piano a la Gaza che decreti una resa ucraina che Trump potrà vendere come sua vittoria, «la nona pace conseguita, che non ci sarebbe se non fosse per me», e svuoti l’impegno europeo contro l’imperialismo putiniano. Possibile, ma non sicura.
Il vertice di Budapest potrebbe non accadere, due settimane sono lunghe. Una volta, i negoziati erano a Vienna o Ginevra, ora tocca alla capitale magiara, la stessa dove a fine 1994 si firmò (con Usa e Regno Unito) il Memorandum che impegnava Mosca a rispettare l’integrità territoriale di Kiev in cambio della rinuncia alle atomiche ex sovietiche. Non è stata una intesa fortunata. È durata meno di vent’anni. Per chi ci crede, è un cattivo presagio.
L’Ungheria di Orbán, premier non proprio saldo, è il nemico in casa dell’Unione; rifiuta il Tribunale Penale Internazionale ed è disposta ad accogliere un Putin persuaso che Trump sfodererà la “formula Gaza” e gli darà il successo.
In tal caso, vincerà con Zelensky e con l’Ue, mentre il tycoon potrà invocare il Nobel e fare affari, con Mosca e gli altri.
A Bruxelles temono questo finale, anche perché amplificherà la sensazione diffusa che la guerra nel Continente non sia più l’ipotesi ritenuta impossibile per decenni.
Il tedesco Merz sostiene che la sconfitta ucraina sia «incontemplabile». Per essere coerente dovrebbe predisporsi a rompere con Trump e sfidare Putin. Ma lui, e i suoi alleati di Palazzo Europa, lo sfiancato Macron come l’atlantista Meloni, sono pronti ad andare sino fondo e affrontare le risultanze, facilmente terribili, della difesa dei diritti e del territorio di Kiev? —
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