Serve un piano anti-overtourism

Perché è vero che i turisti portano soldi, e tanti; ma lo è ancor di più che i costi anche materiali cominciano a scavalcare i benefici. Occorre quindi un piano organico, concordato tra istituzioni e categorie, e ispirato al concetto del limite

Francesco Jori
L'overtourism arriva anche al Seceda
L'overtourism arriva anche al Seceda

Piccoli Attila crescono; anzi, dilagano. Le foto dei giorni scorsi di centinaia di incursori in fila a Seceda, in val Gardena, per salire su una funivia, non sono che l’ennesima denuncia dell’autentico Covid da turismo che sta diventando esiziale pandemia planetaria.

Centinaia in coda per salire sul Seceda in Val Gardena: l'overtourism a livelli di guardia

Tutt’altro che un caso isolato, purtroppo: da anni se ne parla, e ogni anno è peggio; con il rischio di dare corpo a una sorta di suicidio assistito dell’ambiente. Perché è vero che i turisti portano soldi, e tanti; ma lo è ancor di più che i costi anche materiali cominciano a scavalcare i benefici. A partire da un’Italia che ospita ogni anno 135 milioni di visitatori, quinto Paese al mondo per presenze.

Il Nord Est è il fronte più esposto di queste autentiche Strafexpedition seriali, molto più devastanti di quella austro-ungarica della Grande Guerra.

Lo è per la benevolenza di una Natura che le ha regalato davvero di tutto, dalle Dolomiti all’Adriatico, dai laghi alle terme; e per l’impronta umana che vi ha aggiunto stimolanti richiami, dall’arte alla tavola. Ma proprio per questo si trova letteralmente bombardata dagli afflussi turistici: le Dolomiti richiamano ogni anno 9 milioni di arrivi, le spiagge da Grado a Sottomarina giungono a 26.

Per non parlare di Venezia, caso mondiale di città allagata dalle acque alte del turismo, con 13 milioni di presenze. Letti al loro interno, i numeri sono ancora più inquietanti: Bolzano è tra le città italiane con la più alta incidenza di presenze, 69 ospiti per ogni residente; Venezia è a quota 47, con 16 mila presenze per chilometro quadrato.

A rendere disastrose le cifre è la natura sempre più perversa di questi reiterati assalti: la grande maggioranza dei turisti sono mossi non dalla voglia di vedere i posti, ma di vedersi in quei posti attraverso la pratica perversa dei selfie da esibire una volta tornati a casa; basta uno spezzone di una località in qualche turpe serial televisivo per innescare tsunami di guardoni di se stessi.

Tra chi arriva per fermarsi, poi, l’imprudenza si mescola all’impudenza, specie in montagna, con ricadute esiziali: in un mese, i morti in alta quota sono stati già 83. Ma va anche detto che alla cialtroneria dei turisti si sovrappone l’“auri sacra fames” di troppi residenti che ci campano sopra: da chi trasforma appartamenti e uffici in bed and breakfast, a chi ci sguazza con i consumi spiccioli, fin dalla bottiglietta d’acqua e dalla tazzina di caffè.

Se le entrate vengono impinguate dalla voce “guadagni”, non si tiene conto di quella “costi”, che pure impone prezzi salati e ricadute estreme: dalla pressione abitativa all’intasamento delle infrastrutture, dalla precarietà dei posti di lavoro alla manutenzione dei luoghi.

Solo per fare un esempio, Venezia deve raccogliere, e smaltire, 75 chili di spazzatura per ogni visitatore, con un costo di 5 euro per turista al giorno. Tutte conseguenze note e stranote, ma alle quali si continuano ad opporre tonnellate di polemiche sterili, e pochi etti di risposte; molte delle quali assolutamente inefficaci, per non dire risibili.

Non bastano misure-tampone, comprese quelle pur significative messe in atto: occorre un piano organico di gestione del turismo, concordato tra istituzioni e categorie, e ispirato al concetto del limite; come servirebbe un’educazione delle persone a non (mal)trattare l’ambiente come fosse un fazzoletto di carta da usa-e-getta. Utopia quest’ultima, peraltro: annotava Terzani che il turismo ha ridotto il mondo a un enorme giardino d’infanzia, una Disneyland senza confini. E noi, tutti in coda per entrare a farci il “selfie”.

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