Se l’immigrazione diventa ineludibile
L’ultimo rapporto della Fondazione Moressa documenta, sulla base dei numeri forniti da Unioncamere-Excelsior, che da qui al 2028 le imprese italiane avranno bisogno di tre milioni di nuovi occupati, di cui 640 mila immigrati: uno su cinque

E il Piave mormorò: or passi lo straniero. A distanza di un secolo, l’inverno demografico che si abbatte sul nostro Paese capovolge il verso della memorabile canzone del 1918: l’ultimo rapporto della Fondazione Moressa, fresco di stampa, documenta con la forza dei numeri forniti da Unioncamere-Excelsior che da qui al 2028 le imprese italiane avranno bisogno di tre milioni di nuovi occupati, di cui 640 mila immigrati; come dire, uno su cinque. A dettare l’indicazione è che noi facciamo sempre meno figli (6,1 per mille abitanti), gli stranieri comunque più di noi (9,9); e che noi siamo sempre più vecchi (il 26 per cento ha più di 64 anni), loro molto di meno (solo il 6 per cento è over 64).
Il Nord Est contribuisce in quota parte significativa al futuro fabbisogno di manodopera da fuori Paese: 69 mila in Veneto, 16 mila in Friuli Venezia Giulia; in entrambe le regioni con un’incidenza del 26 per cento sul totale della richiesta, a fronte di una media nazionale del 21.
I dati della Fondazione certificano in modo inoppugnabile quanto il mondo nordestino dell’impresa va segnalando e sollecitando ormai da tempo: per poter stare al passo col mercato, le aziende hanno assoluto bisogno di attingere al serbatoio dell’immigrazione, perché il trend demografico degli italiani registra un inesorabile declino; oltretutto destinato a rimanere, anzi ad accentuarsi, nei prossimi anni.
Sia pure con deplorevole ritardo, i numeri sconfessano una narrazione strumentale perseguita per anni, che inseguendo un facile consenso ha trattato l’immigrazione in termini di sola sicurezza, proponendo risposte basate su muri rivelatisi puntualmente di cartapesta, e sullo slogan qualunquista del «rimandiamoli a casa loro». In tutto l’Occidente, l’arrivo di stranieri ha già cambiato la geografia umana e sociale di interi Paesi; e si sta rivelando sempre più indispensabile per continuare a garantire la quotidianità. Anche qui, sono i numeri della Fondazione a testimoniarlo: in Italia, gli immigrati valgono il 9 per cento del Pil (l’11 a Nord Est), hanno versato nel 2024 oltre 11 miliardi di euro di Irpef, il loro contributo alle casse pubbliche supera di 1,2 miliardi quel che lo Stato spende per loro.
C’è peraltro un’essenziale sottolineatura da proporre, e riguarda in modo specifico il nostro Paese. Non basta aprire le porte per reclutare manodopera, è indispensabile accompagnare il processo con investimenti concreti nell’integrazione e nella formazione. Ai nuovi ingressi occorre fornire strumenti per conoscere e interiorizzare le regole civili del vivere comune, e per acquisire competenze lavorative tali da consentirne un inserimento in linea con le esigenze del mercato. Sono finiti i tempi pionieristici del reclutamento di pura manovalanza a basso costo nei segmenti più pesanti e marginali della produzione; servono figure qualificate, e in questo senso proprio a Nord Est sono già in atto sperimentazioni concrete di alto profilo.
Va infine smontata e rifatta da zero su basi efficienti e funzionali l’impalcatura burocratica che incombe sul sistema degli ingressi: oggi ispirato a una gestione emergenziale e alla riduzione dei servizi essenziali di supporto, secondo quanto disposto dal deleterio decreto legge del 2023. È un impianto che non solo ostacola l’integrazione, ma aumenta il rischio di esclusione sociale e di sfruttamento: spostando l’orologio della storia indietro di un secolo, e restituendo al Piave la funzione di trincea. Peraltro, al contrario del 1918, destinata a essere inesorabilmente travolta. —
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