La scommessa di Trump sulla Siria
Al netto dell’attentato della scorsa settimana, ecco perché la Siria resta un terreno caldo per Washington

Spira aria nuova tra gli Stati Uniti e la Siria. L’attacco condotto nel fine settimana dalle truppe di Washington sul territorio siriano rivela il nuovo stato delle relazioni tra Damasco e la Casa Bianca e offre qualche spunto per ripensare al rapporto con le organizzazioni che utilizzano (o hanno utilizzato) il terrorismo come arma politica. Ma facciamo un passo indietro: sabato scorso, un terrorista ha preso di mira un convoglio delle forze statunitensi e siriane, uccidendo due membri della Guardia Nazionale dell’Iowa e un interprete civile, e ferendo altri tre soldati americani, prima di restare – a sua volta – colpito mortalmente. Trump ha così deciso di reagire con forza, mettendo in chiaro che gli Stati Uniti d’America “non esiteranno mai e non cederanno mai” nel difendere il proprio popolo.
Al netto dell’attentato della scorsa settimana, la Siria resta un terreno caldo per Washington: la Casa Bianca conta circa mille soldati nell’area, con lo scopo di impedire la rinascita dell’Isis. In effetti, la caduta del regime di Assad ha aperto nuove possibilità per l’organizzazione terroristica: non è un caso che l’Isis abbia intensificato la sua campagna di reclutamento in Siria, sfruttando le contraddizioni della nuova leadership.
L’attuale leader Al-Sharaa, infatti, rispondeva al nome di battaglia Abu Mohammed Al-Jolani quando, nella vita precedente a quella come capo di Stato, era – a sua volta – un militante jihadista. Lo slogan che l’Isis utilizza per reclutare nuovi adepti è quello del tradimento: la denuncia di Al-Sharaa come traditore della causa islamista a causa della sua apertura verso gli Stati occidentali, nel tentativo di attrarre gli ex membri del gruppo a cui lo stesso Al-Sharaa apparteneva.
Tradimento o no, certo è che la scelta di Al-Sharaa è radicale: poco meno di un mese fa, l’ex jihadista è stato il primo capo di Stato siriano ad essere ricevuto alla Casa Bianca proprio da Donald Trump, ponendo una pietra miliare nei rapporti, burrascosi al limite del conflitto nel corso degli ultimi decenni, tra Washington e Damasco.
Insomma, Trump e Al-Sharaa, un tempo su fronti opposti, hanno ora lo stesso nemico, l’Isis, per entrambi una minaccia alla sicurezza nella regione. Basti pensare al numero di attentati, in media 60 al mese nella sola Siria, nell’ultimo anno.
La collaborazione tra Washington e Damasco non è solo un’operazione di marketing politico ad uso dei giornalisti: i due governi stanno compiendo operazioni militari congiunte contro gli jihadisti (più di 50 raid aerei) e Trump, dal canto suo, ha posto fine all’ultima serie di pesanti sanzioni economiche contro la Siria, a suo tempo imposte per punire Assad per le violazioni dei diritti umani.
La collaborazione con un personaggio complesso come Al-Sharaa pone evidenti problemi di presentabilità politica, oltre che etici. Va però detto che la mossa spregiudicata di Trump ha due effetti positivi: drenare possibili consensi allo jihadismo che, nell’area, è ancora molto presente, e creare un bastione di collaborazione con uno degli Stati chiave nella regione.
Un boccone difficile da digerire che, tuttavia, nell’ottica della realpolitik, potrebbe funzionare. —
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