Pensioni, demografia e salute: perché servono scelte coraggiose
L’invecchiamento della popolazione impone riforme strutturali, ma senza equità si rischia di aumentare le diseguaglianze

Le pensioni hanno fatto irruzione anche sulla legge di Bilancio 2026, suscitando le solite polemiche. Purtroppo, come accade quasi sempre, i commenti tengono poco conto della demografia e dei risultati di ricerca sul tema. Vediamo due aspetti importanti, fra i molti possibili.
La demografia è chiara. Nei prossimi vent’anni – se non vi saranno migrazioni – tredici milioni gli italiani (nati nel 2006-2025) compiranno vent’anni, a fronte di ventidue milioni (nati nel 1961-1985) che ne compiranno sessantacinque. Quindi, ogni anno, nel prossimo ventennio, senza migrazioni, l’Italia perderebbe quasi mezzo milione di potenziali lavoratori. Anche tenendo conto delle migrazioni, il quadro non cambia di molto.
Oggi le persone di 20-64 anni sono trentaquattro milioni; secondo l’Istat – che prevede saldi migratori per il prossimo ventennio simili a quelli degli ultimi anni – nel 2045 le persone di 20-64 anni saranno ventinove milioni, cinque milioni in meno rispetto a oggi. Nello stesso tempo, le persone di età 65+ continueranno ad aumentare, grazie anche al verosimile e auspicabile incremento della sopravvivenza: secondo l’Istat nel 2045 saranno diciannove milioni, a fronte dei quindici milioni di oggi. Quindi, oggi in Italia vivono quarantaquattro persone con più di 64 anni ogni cento di età 20-64, mentre nel 2045, fra appena vent’anni, saranno sessantasei su cento.
Il nostro sistema previdenziale lega in modo stretto pensioni e demografia, perché le pensioni di oggi vengono pagate con i contributi dei lavoratori di oggi. Se i contributi non sono sufficienti, si deve ricorrere alla fiscalità generale. Quindi, la legge Dini del 1995 (accelerata dalla legge Monti-Fornero del 2011) ha stabilito che l’età al pensionamento di anzianità e di vecchiaia fosse legata anche al numero di anni che – mediamente – una persona vivrà dal compimento da 65 anni in poi. Questa età, nell’ultimo cinquantennio è cresciuta a ritmi sostenuti: era quindici anni nel 1974, diciotto nel 1999, ventuno nel 2024. Per non far saltare i conti, l’età al pensionamento è dovuta necessariamente aumentare: è stato calcolato che un mese in meno nella soglia dell’età si trasforma immediatamente in un miliardo di costo in più per le casse pensionistiche (l’effetto è duplice: un mese di contributi in meno e un mese di pensione erogata in più). E non si tratta di un miliardo una tantum, ma di un miliardo in più per tutti gli anni futuri.
C’è però un altro risultato di ricerca, che va tenuto in debito conto. L’incremento improvviso dell’età al pensionamento dopo il 2011 ha causato un peggioramento delle condizioni di salute per i lavoratori manuali, specialmente per quelli impegnati nei lavori più gravosi, specialmente gli uomini. Gli stessi studi mostrano che – al contrario – per le persone impegnate in attività non usuranti, ad esempio di tipo impiegatizio, l’aumento degli anni di lavoro non ha avuto effetti negativi sulla salute. Questo risultato va messo assieme al fatto che l’attesa di vita a 65 anni è più bassa per le persone meno istruite.
Quindi che si dovrebbe fare? Intervenire sulle pensioni è sempre difficile e molto delicato, perché ogni misura adottata muove cifre enormi: nel presente, ma specialmente per il futuro. Per favorire qualcuno – tipicamente, i nuovi pensionati di oggi – si rischia di penalizzare pesantemente chi andrà in pensione nei prossimi anni. Inoltre, intervenendo allo stesso modo su tutta la platea di chi sta per andare in pensione, apparentemente si agisce in modo equo, ma in realtà si perpetuano le diseguaglianze. Si dovrebbe intervenire nel segno dell’equità, sia fra le generazioni, sia all’interno di ogni generazione, tenendo conto della demografia, delle diseguaglianze di salute, delle diverse carriere lavorative.
Bisognerebbe avere il coraggio di aprire veramente il cantiere pensionistico, con riflessioni approfondite che permetterebbero scelte lungimiranti. Il sistema va reso meno rigido, ma vanno evitate misure populistiche, che rischiano di inseguire solo il consenso elettorale. Non è possibile farlo con provvedimenti presentati il diciassette dicembre, per essere approvati dal Parlamento, in legge di Bilancio, prima di stappare lo spumante di Capodanno.
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