Russa-Ucraina, l’idea di pace scritta sulla sabbia
Oltre alle sorti del Donbass, ciò che non è ancora definito sono le garanzie di sicurezza per Kiev, il ruolo che in quell’ambito deve svolgere l’Europa dei “volenterosi”, il futuro della centrale di Zaporizhzhia.

L’ennesimo vertice fra Trump e Zelensky si chiude con l’annuncio del presidente Usa di un «accordo al 95%». Se la politica fosse questione di percentuali, saremmo in dirittura d’arrivo, ma non è così.
Perché il 5% mancante riguarda, tra l’altro, il cuore del conflitto russo-ucraino: il futuro del Donbass, che Mosca vuole per sé anche nelle parti non ancora occupate militarmente dalle sue truppe.
Putin, infatti, non sembra disposto ad accettare un’intesa che non gli offra il pieno controllo della regione e nemmeno l’istituzione di una zona economica libera nell’area di confine che funga da soluzione temporanea ed eviti il riconoscimento ufficiale del definitivo passaggio di quei territori alla Russia.
Se non riuscisse nell’intento, il leader russo proseguirà la guerra, convinto com’è che l’America trumpiana – che si presenta come “equidistante” tra le parti come se aggredito e aggressore stessero sullo stesso piano –, non sia più alleato strategico di Kiev.
Mutamento destinato a condurre gli ucraini alla sconfitta e a conseguenze ancora più strategicamente favorevoli per Mosca di quelle eventualmente determinate da un accordo maldigerito. A conferma di chi sta con chi in questo drammatico finale di partita, le consultazioni, prima e dopo il vertice con Zelensky in Florida, tra Trump e Putin.
Il tycoon ha fretta, vuole concentrarsi sulle questioni interne che possono determinare la sua sconfitta alle elezioni di mid term e trasformarlo in “anatra zoppa”. Un voto fondamentale per capire se potrà ulteriormente strappare il dettato costituzionale puntando a un terzo mandato e contenere le non più occultabili ambizioni del suo vice Vance, vero uomo di fiducia del movimento Maga ostile all’indugiare di The Donald sul fronte esterno.
Consonanze, quelle russo-americane, che rendono estremamente debole Zelensky che, da un lato, deve accontentare Trump che insiste per «concessioni dolorose», dall’altro non cedere troppo per evitare l’accusa di tradimento da parte dei suoi che non intendono capitolare, foriera di una possibile deflagrazione interna del regime.
Oltre alle sorti del Donbass, ciò che non è ancora definito sono le garanzie di sicurezza per Kiev, che con Trump alla Casa Bianca sembrano scritte sulla sabbia, il ruolo che in quell’ambito deve svolgere l’Europa dei “volenterosi”, il futuro della centrale di Zaporizhzhia.
Le posizioni ucraine, ed europee, su questi punti sono respinte dalla Russia, che conta sul disimpegno Usa per vincere la guerra e dare forma a quella soluzione sistemica che, nelle intenzioni del Cremlino, dovrebbe impedire il riprodursi delle tensioni che hanno innescato il conflitto.
Così non stupisce che, dopo quello che viene presentato come un attacco ucraino alla residenza di Putin, smentito da Kiev che teme diventi pretesto per una risposta militare, Mosca annunci, oltre alla rappresaglia, una revisione della posizione negoziale per far fronte al “terrorismo di Stato ucraino”.
Senza per questo proclamare l’uscita dal negoziato stesso: non serve, starci contando su Trump è più conveniente che esibire il solo volto feroce.
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