L’Italia e i (tanti ) soldi dell'Unione Europea: non riusciamo a spenderli

Meloni contraria alla riduzione delle erogazioni ipotizzata dal team von der Leyen. Ma i nodi sono altrove

Marco ZatterinMarco Zatterin
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen (Ansa)
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen (Ansa)

Alla vigilia del vertice europeo di Natale, Giorgia Meloni ha aperto un nuovo fronte con l’Unione. «Lo dirò senza giri di parole: non accetteremo di pagare di più per ottenere di meno», ha detto la premier nel rituale discorso alla Camera.

Ce l’aveva con la proposta di riforma del bilancio comunitario in discussione, programma che punta a rimodellare le fette e ripensare gli ingredienti della torta dei fondi, e dei finanziamenti, che sostengono le istituzioni Ue e sovvenzionano i progetti a vantaggio degli Stati membri: per il periodo 2021-2027, sono stati 1.824 miliardi, somma che vale l’un per cento del Pil dei Ventisette e si annuncia stabile per il settennato 2028-2035, vista la reticenza diffusa ad ampliare i contributi dovuti per il Tesoro a dodici stelle.

L’idea (controversa) del team von der Leyen è ridurre le erogazioni dirette per i settori classici (come l’agricoltura, che da sempre ha la quota più ricca) e aumentare quelle per i settori innovativi (tecnologia, ricerca e difesa), considerando che anche i primi possono beneficiare dai secondi attraverso gli apporti dall’informatizzazione: serve a favorire l’economia e la sicurezza del futuro, continuando a tutelare i settori più rilevanti.

Meloni non è d’accordo per ragioni ideologiche e perché le lobby agricole, come il fronte sovranista, le hanno fatto sapere che è una visione non gradita. Politicamente, Meloni recita così a memoria la partitura da perfetta leader di centrodestra che pesca nell’elettorato euroscettico, ma introduce argomenti che sollevano tre gruppi di riflessioni.

Uno. La filosofia fondante dell’Ue è che i pagamenti al bilancio avvengono in base alla ricchezza dello Stato, del suo del Pil e delle entrate fiscali, mentre le erogazioni avvengono in base alle necessità di sviluppo, singole e collettive. Francia, Germania e Italia sono contributori netti perché hanno le economie più forti e, fra i tre, noi siamo quelli che relativamente incassano di più, perché abbiamo un’agricoltura dinamica e parcellizzata, un Mezzogiorno bisognoso di aiuto e una pletora di aree in declino industriale. La logica europea è che una “nazione” è “grande” se accetta che il suo benessere sia motore dell’altrui.

Due. È un fatto che Roma abbia versato in questo secolo più di quanto ha ricevuto. Ora, no. I versamenti del 2024 dell’Italia all’Ue sono ammontati a 15,7 miliardi, mentre gli accrediti hanno raggiunto i 22,4 miliardi, di cui 9,4 del Next Generation Eu. Il saldo netto per l’Italia risulta pertanto positivo per 6,6 miliardi. Prendiamo più di quanto diamo, situazione destinata comunque a cambiare con il Bilancio 2028 - 2034 se si interromperà il flusso del Pnrr (poco probabile).

Tre. Il dramma è che il discorso sugli incassi è solo formale perché la capacità dell’Italia di recepire i fondi europei è una delle barzellette meno divertenti di Bruxelles. Ogni quadro pluriennale parla di carenze croniche, sforamenti, rinvii e denari perduti. A fine 2024, dopo quattro esercizi, avevamo impegnato appena il 27,1% dei fondi strutturali (20,3 miliardi su 74,8) e ottenuto pagamenti per 6 (8,03).

Per dirla con la Corte dei Conti, la principale causa dei ritardi nella progettazione e nell’utilizzo dei fondi è «la lentezza nell’adozione delle disposizioni nazionali sull’ammissibilità della spesa»; nella politica agricola permangono criticità nella capacità di spesa dei fondi rurali e nella coerenza degli interventi nei territori più fragili; la coesione mostra ritardi nell’attuazione dei programmi, con livelli di spesa e impegno inferiori ai cicli precedenti. È la macchina italica che non funziona come dovrebbe e potrebbe. Per questo, avverte la magistratura contabile, è concreto il rischio che, anche nel 2028-2034, si ridetermino situazioni già viste, ovvero che le autorità di gestione concentrino la spesa verso la fine del periodo di programmazione, compromettendo la qualità dei progetti selezionati.

In sintesi. Firmata una manovra da 22 miliardi, il ministro dell’Economia Giorgetti si è felicitato per aver fatto «cose che parevano impossibili». Legittimamente soddisfatta per aver tenuto il freno al deficit, Meloni ha ritenuto a quel punto di avviare l’offensiva sul budget prossimo venturo. Il che, dal suo punto di vista, ha senso, anche solo in vista di un negoziato che non sarà semplice. Ma se ci si concentra sul Paese e delle sue ambizioni di sviluppo, è corretto chiedersi se non sarebbe parecchio meglio impegnare le energie nella caccia aperta ai 50 miliardi che possiamo ottenere dall’Europa entro il 2027, spingendo sulla qualità della leva finanziaria e di quella amministrativa. È una mossa che vale oltre due leggi finanziarie, crea ricchezza e consenso continentale. Cioè l’esatto contrario del puntare (troppo) i piedi sul nuovo bilancio che premia interessi consolidati e non consolida gli interessi. Non quelli di tutti, perlomeno. —

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