Ridateci Schengen e quell’Europa con dei confini aperti
Sono trascorsi due anni dall’adozione di una misura che si diceva temporanea. E il vero danno sta nelle coscienze: è già stato minato lo spirito comunitario

Chissà se l’Europa di Schengen tornerà mai a rivivere. Chissà se la chiusura dei confini comunitari con il ripristino dei controlli ai valichi, inclusi quelli tra il Friuli Venezia Giulia e la Slovenia, avrà mai fine. C’è da dubitarne.
Trascorsi due anni dall’adozione di una misura temporanea destinata a durare prima dieci giorni, poi sessanta, poi sei mesi, quindi indefinitamente prorogata, tutto lascia credere che il provvisorio diventerà definitivo. Siamo già immersi nella nuova normalità: nell’ossessione dei controlli, nella paura, nei confini da rinserrare anziché permearli. Dieci Paesi dell’Unione hanno ricreato le frontiere; e che l’abbia fatto anche la Germania, chiude la questione. L’Europa aperta suona già un discorso illusorio e antico. Eppure, e proprio oggi, ne avremmo bisogno più che mai.
La misura “provvisoria” nacque tra i governi europei (inizialmente Italia, Slovenia e Croazia) con una mistificazione collettiva: il 18 ottobre 2023, undici giorni dopo l’attacco di Hamas a Israele, i controlli furono annunciati come provvedimento eccezionale per prevenire infiltrazioni terroristiche. Il contrasto alle migrazioni irregolari fu esposto come un fattore secondario. In realtà fu dal principio l’unico vero obiettivo, come apparve ben presto. Di terroristi nessuno ha mai più parlato, mentre per due anni la presunta efficacia dei controlli è stata sostenuta sciorinando i dati del respingimento dei migranti illegali.
Ma se emergenza migratoria vi era stata, oggi è in gran parte scemata. Da gennaio ad agosto di quest’anno gli ingressi attraverso la cosiddetta rotta balcanica – che dal Medio Oriente risale attraverso la Turchia e i Paesi ex jugoslavi – sono diminuiti del 47% rispetto al 2024. Sarà il terzo anno consecutivo. Rispetto ai 150 mila accessi del 2022, quelli dello scorso anno si erano già ridotti a un sesto, e a fine 2025 saranno ulteriormente discesi.
Lo stesso sta accadendo sulle due altre grandi rotte mediterranee: quella dell’Ovest, che tocca la penisola iberica, e quella centrale, che da Libia e Tunisia conduce in Italia via mare. Dopo il drammatico 2015, quando più di un milione di migranti raggiunse l’Europa, in gran parte in fuga dalla Siria e diretti in Germania, i numeri si ridimensionarono progressivamente anche a causa del Covid. Risalirono a 380 mila accessi fra le tre rotte nel 2023, per ridiscendere a 112 mila nei primi otto mesi di quest’anno (-21% rispetto allo stesso periodo 2024, -52% rispetto al 2023).
Si potrebbe obiettare che per l’appunto questi dati dimostrano l’utilità della chiusura dei confini, e la ragione per mantenerla. Ma sta proprio qui il cuore della questione. Il provvedimento è stato ed è di mera facciata.
I flussi migratori mediterranei – ben più ampiamente che lungo i nostri cento chilometri di confine – sono crollati per due ragioni fondamentali. È diminuita la pressione mediorientale, scemate le due gravi ondate dalla Siria prima, e dall’Afghanistan poi. E, soprattutto, hanno funzionato le pur ciniche misure di dissuasione concordate con gli Stati nordafricani, con i quali il blocco Ue ha stipulato molteplici accordi affinché pattuglino le loro coste intercettando le imbarcazioni dei disperati (spesso sparando, arrestando, torturando). Gli “aiuti e investimenti” comunitari promessi a quei Paesi sommano non meno di dieci miliardi di euro.
A farla breve, abbiamo riempito di soldi vari dittatori e le loro milizie affinché bloccassero le migrazioni. Una ragion di Stato molto discutibile e forse necessaria, ma che è doveroso raccontare così come sta, anziché ammantarla di “cooperazione allo sviluppo”. Nel caso della rotta balcanica, ha giocato a favore una politica occidentale conciliatoria nei confronti della Turchia, che come il Marocco ha sempre usato i flussi migratori come infausti rubinetti da aprire o chiudere secondo convenienza.
In questo scenario internazionale, far credere che le pattuglie ai valichi italo-sloveni (per fortuna gestiti con grande buonsenso da parte della polizia) abbiano dissuaso i migranti dal risalire la rotta balcanica è puerile se non surreale.
Hanno funzionato bene, semmai, il coordinamento operativo e i pattugliamenti congiunti italo-sloveni lungo i confini boschivi. È lì che i passeur transitano nottetempo, e non certo dal valico di Fernetti sventolando il passaporto. Non a caso i dati sui rintracci forniti periodicamente mettono insieme tutte le operazioni di confine, e non solo quelle ai valichi presidiati. C’è un’unica buona ragione per mantenerli tali, ed è di comunicazione pubblica. Far sapere al mondo che i confini sono “chiusi” dà un chiaro messaggio politico e può avere un qualche effetto deterrente.
Ma vale solo per questo la pena di mantenere una misura ridondante, disagevole e costosa, distogliendo molti agenti dal presidiare la sicurezza delle nostre città?
Crediamo di no. Perché il danno è sottile, impercettibile, ma crescente e devastante: è nelle coscienze. Si mina, si è già minato, lo spirito europeo. Si riporta la percezione del confine nazionale al centro del discorso pubblico e del vissuto quotidiano. Si smantella psicologicamente la dimensione comunitaria in un’era in cui c’è bisogno di Europa per fronteggiare i due grandi blocchi americano e cinese. Si usa l’Unione come capro espiatorio della debolezza delle leadership nazionali.
Ridateci Schengen, anche se non è più di moda. —
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