Voto regionale, se si ferma la giostra elettorale
L’esito delle urne contrasta con la vivacità della società civile contro l’orrore di Gaza. Un’onda di indignazione e impegno che, tuttavia, non si riflette negli esiti elettorali


Siamo solo all’inizio della lunga corsa a tappe del voto regionale, che si concluderà a novembre in Veneto, Puglia e Campania. Ma i segnali che arrivano dalle Marche alimentano le aspettative di una competizione piuttosto “piatta”. Che contrasta con i continui scossoni elettorali degli anni scorsi. Ma anche con la crescente effervescenza della mobilitazione di piazza.
Ci eravamo quasi abituati alle montagne russe. Ad ogni elezione, la curva del consenso a qualche partito si impennava. Mentre altri conoscevano il brivido di vette mai raggiunte. Per poi precipitare di lì a poco. Alcuni territori, peraltro, enfatizzavano queste tendenze. Tra questi, le Marche: un tempo “regione rossa”; magari anomala rispetto alle confinanti Emilia-Romagna e Toscana, ma a lungo governata dal centro-sinistra. Più di recente, contagiata da un malessere profondo, che si traduceva nella continua ricerca di novità. E la portava, ad ogni elezione, sulla cresta dell’ottovolante. Fino alla svolta di cinque anni fa, con lo sfondamento del centro-destra.
Magari già domani le urne calabresi ci regaleranno clamorosi sussulti. Ma la conferma del blocco meloniano ad Ancona ribadisce, per ora, quello che i sondaggi suggerivano da due anni e mezzo. La giostra si è fermata. Dopo i picchi e le cadute, la linea è piatta.
È una immagine che contrasta con la vivacità della società civile contro l’orrore di Gaza. Un’onda di indignazione e impegno che, tuttavia, non si riflette negli esiti elettorali. Nonostante la protesta abbia tra i propri target il governo. Nonostante la Palestina e la Flotilla siano entrate nelle campagne elettorali regionali.
Il fiume che parte dalle piazze non conduce ai seggi. Che rimangono vuoti almeno per la metà. E anche questo non dovrebbe più fare notizia: restituisce un dato strutturale più che il segno di un cambiamento.
La stabilità, naturalmente, – soprattutto la stabilità di governo – è un valore. Specie in una fase di grandi turbolenze come quella che stiamo vivendo. Ma presenta anche insidie ben note. Nel momento in cui dietro il congelamento degli esiti elettorali si cela, almeno in parte, un deficit di rappresentanza. La mancanza di alternative credibili a chi governa. Perché radicalizza il messaggio di chi, in centro come in periferia, sa di avere poche chance di risalita e accesso a ruoli di governo. E non predispone all’ascolto chi occupa le stanze del potere. Perché spinge a trascurare le istanze della cittadinanza. Ad occuparsi – appunto – solamente del potere: della sua gestione e della sua spartizione.
Vale per tutti. Valeva per la DC ai tempi della Prima Repubblica, come varrebbe per chiunque, oggi, riuscisse a conquistare l’egemonia a Roma. Vale per la sinistra, nelle aree dove ha dominato incontrastata per decenni. Vale per la destra, ad esempio, nel Veneto che si appresta al voto, ma attende da mesi il nome del candidato per il post-Zaia, come ha sottolineato il direttore Ubaldeschi la scorsa settimana.
Se la giostra dell’alternanza si ferma, chi sta in alto resta in alto, chi sta in basso resta in basso. C’è poco da stupirsi, allora, se a qualcuno viene voglia di scendere.
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