L’assenza di una politica economica svelata dal calo della produttività

Nell’Italia dei campanili geografici e ideologici con la testa a “quando c’erano i comuni” sono in pochi a pensare di farlo e ancora meno a provarci.

Marco ZatterinMarco Zatterin
Ingegneri al lavoro su una turbina eolica
Ingegneri al lavoro su una turbina eolica

I commercianti esultano. L’ultimo rapporto del Consiglio nazionale economia e lavoro (Cnel) certifica che la produttività del terziario batte quella della manifattura. Va bene, ma non è proprio un trionfo. Perché negozi, trasporti, alloggio e ristorazione sono anche i settori che più variano con le stagioni e il ciclo, l’ambito in cui i contratti risultano più precari e le retribuzioni meno confortanti.

E non è una festa se i numeri rivelano che da noi rendono le attività che offrono una prospettiva reddituale incerta e richiedono un basso valore aggiunto di competenza, che hanno una maggiore propensione all’evasione e offrono fondamenta meno sicure al mercato del lavoro, e dunque meno promettenti per i consumi. Il che, se può apparire incoraggiante per una parte del Paese, non rincuora un sistema che, almeno sino ad oggi, ha fatto dell’industria piccola e grande la punta di diamante della sua competitività nel nome del richiestissimo “made in Italy”.

La produttività che latita da decenni è una delle zavorre dell’economia tricolore. La quale, secondo i calcoli dell’ufficio studi della Confindustria, sarebbe parecchio in rosso se non fosse per la pioggia di miliardi del Pnrr. Senza la ricca dote europea, in parte a prestito e in parte a fondo perduto, il 2025 si chiuderebbe in recessione di 0,3 punti (invece che in attivo di 0,5, come da attese), scenario che si ripeterà nel 2026 (meno 0,1 invece che del più 0,7 stimato). In altre parole, senza il contributo post Covid concordato con i partner Ue, la dinamica del Pil sarebbe più negativa che nella vituperata e depressa Germania.

L’analisi del Cnel conferma che, nonostante gli evidenti talenti diffusi lungo la Penisola, si naviga nella debolezza strutturale persistente. Da tempo, oltretutto. La produttività del lavoro è cresciuta di appena l’0,2 per cento ogni dodici mesi nel ventennio 1995-2024; nello stesso periodo, la media Ue è stata dell’1,2 per cento, a fronte dell’1 per cento tedesco e dello 0,8 francese.

Andiamo piano, troppo piano. E la sostanziale stagnazione si è accentuata nell’ultimo quinquennio, nel quale la variazione è stata negativa di un decimo di punto. Nel biennio 2023-2024 la produttività dei fattori e del capitale per ora lavorata è stata in rosso per oltre mezzo punto. È come mettere carbone fresco nella caldaia e vedere il calore che diminuisce.

I principali fattori della disfunzione sono tre. Il primo, rileva il Cnel, è che l’intensità degli investimenti confluiti nel motore dell’Italia non ha generato un contributo significato alla crescita della produttività del lavoro, è un tema di orientamento e strategia inadeguati.

Il secondo è direttamente collegato al precedente, spiega che il flusso di capitale cosiddetto “non tangibile” – in pratica tutto il supporto tecnologico dal software alla ricerca – è minore rispetto quanto si inietta in macchinari e impianti, ovvero a vantaggio della vecchia, per quanto sempre valida, guardia. Non si innova abbastanza, insomma.

E questo conduce alla terza spiegazione e cioè che la politica economica ha finito per spingere la domanda verso i comparti a minore produttività e minor requisito di competenza, dove l’occupazione cresce a fronte del ristagno segnalato laddove la produttività è maggiore.

L’effetto micidiale è sulla qualità dell’offerta di lavoro. Si scopre che appena il 16 per cento della manodopera nazionale ha conoscenze elevate nella gestione dei domini dove prevalgono le Ict, le tecnologie dell’informatica e della comunicazione, a fronte del 30 per cento di Francia e Germania. Mentre la percentuale di laureati in materie Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) vale poco più della media europea, 15 contro 26 per cento.

E solo il 38 per cento delle aziende nazionali è familiare con il cloud, cosa che avviene per il 60 per cento delle rivali comunitarie. Per farla breve, non siamo generosi nel maneggiare il futuro e trascuriamo di apprendere le nozioni che ci possono consentire di affrontarlo a testa alta. Siamo distratti, certo, anche se poi i migliori esistono e si vedono quando si fa la conta dei giovani che cercano fortuna oltre le Alpi.

È una questione di apparato complessivo, di governo complessivo dell’economia. Riguarda le scelte pubbliche e le attitudini private. L’Ufficio parlamentare del Bilancio - autorità indipendente dei conti pubblici - ritiene che, sul piano delle politiche economiche, sarebbe opportuno rafforzare la produttività totale dei fattori, usando al meglio le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e migliorando le risorse di contesto istituzionale.

Formare, condurre, posizionare, per dirne solo tre. Magari impegnandosi a stimolare l’ingresso nel mercato del lavoro dei tanti inattivi di ogni età (ad agosto erano il 33 per cento della forza disponibile) e orientare in modo lungimirante i flussi migratori. L’effetto congiunto di questi interventi potrebbe mitigare l’impatto delle tendenze demografiche sul potenziale di crescita dell’economia italiana in un quadro europeo che, secondo più fonti, si caratterizzerà per una perdita netta di manodopera pari a un milione di teste l’anno.

Sarebbe una buona ragionare per guardare lontano, pensare all’oggi come inizio del domani. Basterebbe poco. Ma nell’Italia dei campanili geografici e ideologici con la testa a “quando c’erano i comuni” sono in pochi a pensare di farlo e ancora meno a provarci.

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