Il piano di Trump, Hamas e Netanyahu: quanto è credibile la pace
In generale, per arrivare a un accordo che duri tra due parti in guerra ci sono due strade: o la resa incondizionata di uno dei contendenti, sconfitto sul campo in modo irreversibile, o un patto che nasca dalla disponibilità di tutti a rinunciare almeno a qualcosa delle loro pretese


“Nessuno è così pazzo da preferire la guerra alla pace”: lo scriveva già Erodoto, considerato il fondatore della scienza storica, agli albori della nostra civiltà. Dopo oltre due millenni, e con armi molto più distruttive, la sua affermazione è più vera che mai.
E come si può non desiderare una pace che ponga fine a un massacro che giorno dopo giorno si consuma sotto gli occhi del mondo, producendo in tanti di noi l’indignazione e il senso di impotenza di cui hanno dato prova le piazze italiane del 3 ottobre? È logico quindi che tanti, in tutto l’arco delle posizioni politiche, abbiano accolto con favore l’annunciato piano di conclusione del conflitto di Donald Trump. E che la dichiarata disponibilità di Hamas di rilasciare gli ostaggi, oltre che sollievo per la possibile fine dell’inferno in cui sono precipitate le prime vittime (in ordine di tempo) di questo conflitto, produca ottimismo.
È giusto però chiedersi se l’ottimismo sia fondato nei fatti, anche per evitare di ritrovarci tra poche settimane o perfino tra pochi giorni ancora più impotenti. E delusi. In generale, per arrivare a una pace che duri tra due parti in guerra ci sono due strade: o la resa incondizionata di uno dei contendenti, sconfitto sul campo in modo irreversibile, o un patto che nasca dalla disponibilità di tutti a rinunciare almeno a qualcosa delle loro pretese.
Certo si possono cercare soluzioni intermedie, che per esempio premino i vincitori ma senza schiacciare del tutto gli sconfitti, o più ambiziose, che chiudano il conflitto con un “nuovo ordine” per tutti. Ma rischiano di essere fragili ed effimere, e quindi di sfociare di nuovo nel conflitto.
La storia è piena di casi del genere, non ultima la pace che seguì alla prima guerra mondiale e sfociò nella seconda. Il piano di pace di Trump si presenta come una mediazione ma non lo è, perché chiede la resa unilaterale e assoluta di una delle parti, i terroristi di Hamas, e dà all’altra, lo stato di Israele che si sta macchiando di gravi crimini, una vittoria che non ha ottenuto sul campo. Si presenta addirittura come un progetto per una pace duratura in Medio Oriente, ma basta per questo la dichiarata adesione di governi arabi, in gran parte storici alleati degli USA e che non hanno molto da perdere nel dichiararla?
L’annunciata volontà di rilasciare gli ostaggi è solo una delle condizioni a cui Hamas dovrebbe sottostare: che soddisfi tutte le altre, in particolare il disarmo totale, resta da vedere, ed è sempre da verificare quanto valgono gli impegni di un’organizzazione terroristica.
Israele è sempre rimasto vago su tempi e modi della sua adesione al trattato, a cominciare dalla fine dei bombardamenti su Gaza, e se anche si fermasse questo non dà alcuna certezza che non ricominci.
Non parliamo del destino politico della Palestina, su cui il trattato oscilla tra il vago e il macchinoso mentre chiaramente Netanyahu non ha dubbi: dovrà restare un popolo sempre e indifinitamente subalterno, soggetto a un’espropriazione che non finisce mai. A minare qualunque processo di pace può poi pensare la milizia paramilitare (i “coloni”) che è strettamente legata ad alcuni membri del governo e spesso favorita dall’IDF, anche se Netanyahu presenta sempre le sue azioni come incontrollate.
Quella promessa da Trump non è una pace giusta: non è solo una debolezza etica, è una causa in sé di fragilità e di scarsa tenuta. Ed è un “accordo” basato su molti non detti e impegni a metà. Sono pessime premesse per quella pace in cui in tanti, comprensibilmente, sperano.
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