Chi si farà più male con il referendum? La posta in gioco tra Meloni e Schlein
Nel centrodestra cresce la paura di una débâcle, nel Pd si teme l’effetto boomerang. La campagna sarà dura ma calibrata, per non lasciare troppi feriti politici dopo il voto

La domanda che in queste ore si fanno tutti nel circolo degli eletti di Camera e Senato non è solo chi vincerà il referendum sulla separazione delle carriere dei giudici in aprile, ma chi si farà più male in caso di sconfitta: Giorgia Meloni oppure Elly Schlein?
Certamente l’uscita di un politico navigato come Ignazio La Russa – «il numero di magistrati che passa da una funzione all’altra è modesto, il gioco non vale la candela» – conferma che nel giro della premier il timore di perdere sia alto. E così anche dall’altra parte. Quindi, come svelano i dirigenti dem, «noi non diremo di votare contro Meloni perché se vince, si rafforza».
Ergo, sarà una campagna dura, ma non una battaglia da fine del mondo, per fare in modo che chiunque sia a perdere non debba pagare troppo pegno.
Va da sé che dalle parti di Schlein dicano che per Meloni sarebbe una débâcle vedersi bocciare dal popolo una riforma che il suo governo si è intestato al punto da impedire al Parlamento di votare una sola modifica: sarebbe lei a scontarla a un anno dalle elezioni, perché tutto andrebbe a scatafascio nella sua maggioranza: una Forza Italia ferita e priva della sua bandiera berlusconiana non avrebbe più motivi per far marciare il premierato e la riforma elettorale con il nome della premier nella scheda. E anche l’Autonomia differenziata della Lega resterebbe al palo.
E dunque dall’effetto che le urne referendarie provocheranno sulle due leader dipenderanno le evoluzioni nei mesi successivi. Una vittoria dei partiti di governo potrebbe produrre elezioni anticipate già nel 2026.
Se Giorgia dovesse spuntarla anche stavolta, potrebbe farsi venire la tentazione di cavalcare l’onda. Perché aspettare l’ignoto, ovvero un altro anno, con tutte le incertezze sui fronti di guerra, economici, sociali? Per vincere il gran premio della longevità a Palazzo Chigi?
Passiamo a Schlein: con una sconfitta, la sua leadership subirebbe una ferita e alle primarie contro Giuseppe Conte se la dovrebbe vedere con il popolo di sinistra deluso e quello dei 5 stelle infuriato. Sicuramente pronto ad accusare il Pd di non aver fatto la sua parte, perché in fondo segretamente non ostile a separare le carriere dei giudici, come del resto suoi illustri antenati che hanno ancora eredi influenti nel partito.
La campagna del Pd sarà giocoforza modulata per dire che già con le norme attuali si contano sulle dita di una mano i giudici passati da un ruolo all’altro. E che non serve imporlo cambiando la Costituzione: oggi una procura chiede l’assoluzione del sottosegretario Andrea Del Mastro e il giudice invece lo condanna, un’altra procura chiede la condanna per Matteo Salvini e il giudice lo assolve. Quindi il sistema è già equilibrato, mentre la riforma tende solo a mettere i pm sotto il controllo della politica, senza risolvere il problema che più assilla i cittadini, la lentezza dei processi.
Al netto dei contenuti, tutto si giocherà su un numero, quello dell’astensione: i referendum costituzionali non hanno quorum e basta una minoranza per vincere. Gli strateghi di Meloni hanno pronti gli slogan anti-giudici per mobilitare gli elettori, quelli di Schlein contano sulla speranza che i militanti di sinistra vadano tutti a votare e che gli altri abbiano meno motivi di uscire da casa per confermare una legge già approvata dai loro rappresentanti. Vedremo se sarà così, visto che la stessa Schlein si è chiesta se in Italia i giudici siano così popolari.
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