Cresce la febbre del bunker sotto casa, l’Europa si sta attrezzando: l’Italia no
Disposizioni più o meno ufficiali anche in Svizzera, Finlandia, Svezia e Germania

Anna si sta attrezzando il bunker in cantina. Lo racconta a un gruppo di amici mentre sorseggia un caffè nel sole autunnale ancora caldo. Ha il tono serio che si addice alla sua figura elegante, una belga dinamica che ha lavorato a lungo in diplomazia e adesso ricopre un incarico di consulenza nell’industria della Difesa. «Tutti i generali che ho incontrato di recente prevedono una guerra in Europa entro cinque anni», assicura con espressione grave. Per questo si è messa a lavorare nel sotterraneo della sua maison bruxellese: «Temo il futuro – confessa – e voglio essere tranquilla, nel limite del possibile».
La sua casa è un classico edificio della capitale dell’Unione, una costruzione cielo-terra nei pressi delle istituzioni comunitarie. La cave è spaziosa. Anna ha blindato le finestre, ha comprato due brandine e una latrina chimica, ha fatto scorta di acqua e cibo in scatola, facendo attenzione al valore proteico e senza disdegnare gli integratori. Si è procurata un fornelletto, una maschera antigas, supporti elettrici e batterie a lunga durata. Poi carta, matite, libri, sacchi di plastica per i rifiuti, soldi di carta e moneta.
«Ho seguito il manuale di istruzioni del governo svedese – racconta – perché contempla le catastrofi naturali estreme, i blackout prolungati e le offensive terroristiche». Ha anche stampato un foglio con i numeri di telefono più importanti: «Da quando uso il cellulare non li ricordo più a memoria».
Le parole della donna gelano gli ascoltatori italiani, che la guardano con una preoccupata sorpresa e la scettica ironia di chi vive in un mondo diverso. «I bunker? – sospira una voce milanese –. Da noi la gente ha casa sulle pendici dei vulcani e convive col bradisismo, sai che ci facciamo coi rifugi atomici? ». Nella realtà, interviene un dottore napoletano, esiste dal 2016 nel capoluogo campano un piano di evacuazione della Protezione civile secondo cui, in caso di eruzione, i cittadini del Vomero sarebbero accolti in Piemonte; quelli dell’Arenella in Veneto; Chiaiano e Scampia in Friuli Venezia Giulia. «Te lo immagini? – sorride amaro e fatalista – Pensa tu dovessimo attrezzare i bunker alla Sanità. ..».
Difficile dargli torto. Ma c’è chi ragiona altrimenti. Gli svizzeri, ad esempio. Una norma impone di costruire rifugi antiaerei in ogni nuovo edificio residenziale dal 1963, dunque dalla Guerra Fredda. La neutrale Berna stabilisce l’obbligo di garantire a ognuno dei suoi nove milioni di cittadini un rifugio in caso di crisi, guerra o calamità che sia. Attualmente esistono 370 mila ricoveri che, sulla carta, coprono il 104 per cento degli abitanti e costano, ogni anno, quasi come la sanità pubblica. Chi non lo ha in casa, per cause strutturali, fa riferimento a una struttura collettiva, con un diritto di accesso che costa poco meno di diecimila euro una tantum. In tempi di pace sono luoghi di incontro, cantine, saune, palestre. Ma, se scoppiasse una guerra, potrebbero garantire più settimane di protezione. O almeno si spera.
L’aggressione russa in Ucraina, e le ambizioni imperialiste di ritorno di Vladimir Putin, hanno convinto numerose capitali a pensare che la pace non sia più una certezza. La Svezia ha diffuso nel novembre 2024 il suo opuscolo di 32 pagine per informare la popolazione su come comportarsi sotto le bombe; Stoccolma stima che il 70 per cento dei cittadini può essere ospitato in un bunker, pubblico o privato. Il dato scende al 62 per cento in Finlandia, Paese che vanta 1.340 chilometri di frontiera con la Russia, la distanza fra Venezia e Londra. L’Austria, neutrale come gli elvetici, ha posti per uno su dieci. La Germania, consapevole di essere al 3 per cento, ha avviato un dibattito per valutare il caso: neanche loro, come i generali di Anna, si fidano dell’avvenire.
L’Italia forse pure, ma non ne parla. Sarà la scaramanzia, sarà che bradisismo, tracimazioni, falde inquinate, alluvioni e terremoti costringono a un differente ordine di priorità. Sebbene esistano aziende specializzate nella costruzione di bunker antiatomici, il genere non è richiesto. Lungo la penisola esistono alcuni tunnel storici, come quello sotto il Monte Soratte nel Lazio o il centro di Affi (Verona). Nelle città ci sono le vestigia dei rifugi dell’ultima guerra, in condizioni precarie, per quanto se ne sa. Non risulta un piano pubblico di emergenza e nemmeno un’adeguata protezione per le più alte cariche dello Stato.
Ancora una volta, la programmazione non abita qui. E poi chi si prende la responsabilità di pensare a una possibile guerra mentre la Sanità, la Scuola e il lavoro invocano fondi che non ci sono?
Giusto o sbagliato, non succederà. Se dovesse andare male, andrà malissimo e, dopo aver invocato i santi opportuni, dovremmo affidarci al tradizionale «Io speriamo che me la cavo». Così tocca auspicare che i generali di Anna abbiano torto. Ma, purtroppo, lo si vedrà solo alla prova di fatti a cui nessuno vorrebbe assistere. —
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