Referendum, un primo round che rafforza il governo Meloni

Mentre Schlein ha mobilitato tutto e di più, volteggiando sul ring della contesa, menando colpi a destra e al governo tutto, senza raccogliere la sfida, Meloni ha combattuto a mani basse, lasciando scornare la sinistra dentro il suo angusto recinto

Carlo BertiniCarlo Bertini
Un seggio elettorale (Petrussi)
Un seggio elettorale (Petrussi)

A voler essere onesti, fino a quando varrà lo scenario in cui la sfida si consuma tra le due leader dei maggiori partiti, questo primo tempo della partita è stato vinto da Giorgia Meloni. Certo, ai punti e non per kappaò, in attesa di una probabile sconfitta alle regionali d’autunno. Ma è corretto dire che la premier sia uscita rafforzata da questo primo giro di boa. A differenza della rivale Elly Schlein, che si è indebolita fuori e dentro il suo partito, come dimostra il cahiers des doleances di esponenti riformisti della minoranza dem (Gori, Picierno, Gualmini, Sensi).

Una vittoria ottenuta per giunta senza colpo ferire, in senso letterale, senza produrre uno slogan, senza spostarsi da palazzo Chigi, senza fare un post su Instagram. Mentre Elly ha mobilitato tutto e di più, volteggiando sul ring della contesa, menando colpi a destra e al governo tutto. Senza raccogliere la sfida, Giorgia ha combattuto a mani basse, lasciando scornare la sinistra dentro il suo angusto recinto. E i numeri confermano che il recinto è piuttosto ristretto, visto che il quesito principe in termini politici, quello sulla cittadinanza, ha sommato solo 9 milioni e rotti di Sì, con quasi il 40% di No di quelli che sono andati a votare.

A riprova che sui temi più controversi il “campo largo” non si riesce ad allargare ai suoi elettori; e che su un tema dirimente come l’immigrazione, che ha consentito alle destre di affermarsi in Europa, la costituency elettorale del centrosinistra non abbia un idem sentire: un governo delle opposizioni dunque avrebbe difficoltà a gestire il fenomeno. L’elemento nuovo è che ora tutto l’elettorato ne ha avuto riprova, non proprio un successo politico, dunque.

Quando la sinistra era permeata da un rigore oggi disconosciuto, in casi come questi si sarebbe passati dritti all’analisi della sconfitta. Convocando i gruppi di vertice in Direzione, per dire chiaro e tondo: scusate, volevamo dare una spallata al governo che non c’è stata, puntavamo al quorum, che non c’è stato. Abbiamo cavalcato quesiti sul lavoro promossi dalla Cgil (che ha rotto l’unità sindacale, altro bene rifugio in fumo), minando l’unità interna e sperando in una resa dei conti: sconfessavano norme di governi guidati da noi stessi dieci anni fa e abbiamo sbagliato a cadere nella trappola, indebolendo di fatto la battaglia su giusti salari e precariato. Dunque, urge aggiustare la rotta per non andare a rimorchio dei 5 stelle, rischiando che alla lunga ci rubino la leadership.

Il paragone tra i 12,9 milioni di Sì ai quesiti sul lavoro e i 12,3 milioni di voti presi dal centrodestra tre anni fa, in altri tempi non sarebbe stato citato neppure come un segnale da tener presente. La conoscenza della statistica, prima ancora che della politica, lo avrebbe impedito. Ha ragione il senatore veneto di FdI, Lorenzo Speranzon, a ricordare del resto che a quei 12 milioni di consensi del 2022 andrebbe sommato quel 5-7% in più che oggi i sondaggi danno a un centrodestra più forte di prima. Dal Pd dunque si manda in scena un film surreale, che a una segretaria amante della settima arte dovrebbe ricordare i capolavori di Luis Bunùel: una propaganda della “non vittoria”, tanto per citare l’autogol di Bersani del 2013. Il che fa capire che la linea del Pd resterà questa, sorda ai richiami alla realtà. Con tanti sentiti ringraziamenti da parte di Giuseppe Conte e Giorgia Meloni. —

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