La gabbia del potere del sistema Putin
L’azione martellante della propaganda in Russia e le radici più profonde di un marcato dissenso interno


Se il mondo è diventato tanto più pericoloso di quanto si poteva immaginare solo pochi anni fa la responsabilità principale è di Vladimir Putin, che ha voluto nel 2022 una guerra in Ucraina di cui non si vede la fine, ha creato un asse con i regimi più minacciosi a cominciare dall’Iran e dalla Corea del Nord e ha favorito l’aprirsi di altri fronti di conflitto.
A pagare il prezzo della sua aggressione sono certo gli ucraini, vittime di ininterrotti e indiscriminati bombardamenti senza dimenticare i crimini di guerra. Ma il costo delle scelte di Putin si fa sentire anche nel suo paese, che ha sacrificato tra morti e feriti oltre un milione di uomini mentre il tenore medio di vita dei russi è pesantemente peggiorato in un’economia colpita dalle sanzioni e largamente convertita alla produzione bellica a scapito dei beni utili a persone e famiglie.
Questo però non ha comportato una consistente perdita di consenso per il dittatore. La dissidenza più attiva coinvolge solo piccole minoranze e quando il regime ha assassinato il suo massimo simbolo, Aleksej Navalnyi, le reazioni sono state ben scarse.
Come dimostrano giornalisti e documentaristi, tra i soldati al fronte e le loro stesse famiglie vi è una netta differenza di percezione: chi vive direttamente il conflitto constata l’assurdità di una guerra contro un popolo che non intende affatto “ridiventare” russo, chi resta in patria invece tende a ripetere le tesi ufficiali sull’Ucraina “nazista” e sulla necessità di un’azione “patriottica”. Come si spiega? Sicuramente pesa molto l’azione martellante della propaganda soprattutto televisiva e il silenzio imposto a dissensi e informazioni contro corrente infliggendo condanne ad anni di galera a chi metta in dubbio le versioni ufficiali.
Ma ci sono anche cause più profonde. Secondo Anna Zafesova, autrice del recente “Russia l’impero che non sa morire”, la fine dell’Unione Sovietica è stata vissuta da Mosca a Vladivostock non tanto come una liberazione quanto soprattutto come un trauma, come la fine di ogni certezza. Le speranze di democrazia e benessere si sono presto infrante contro il disordine degli anni Novanta, che hanno visto una Russia fragile, confusa e in preda ad accaparratori senza scrupoli. Già nel 2000 il romanziere Vladimir Voinovic scriveva: «Fino a poco tempo fa vivevamo in uno zoo. Ognuno aveva la sua brava gabbia. I predatori erano da una parte, gli erbivori da un’altra. È naturale che tutti gli abitanti dello zoo sognassero la libertà. Ora ci hanno aperto le gabbie. Siamo usciti in libertà e ci siamo accorti che il piacere di scorrazzare sull’erba può anche costarci la vita. A stare veramente bene sono solo i predatori».
Così, aggiunge Voinovic, «dopo averne avuto abbastanza della libertà, dopo essere stati terrorizzati per benino» moltissimi si chiedono «non sarebbe meglio ritornare in gabbia? E perciò ci stiamo guardando in giro e cercando, diciamo, il direttore dello zoo. Che riporterà l’ordine e metterà ciascuno nella sua gabbia».
Erano parole profetiche, visto che solo l’anno prima Putin aveva assunto il potere. Da allora ha guidato un regime sempre più minaccioso verso il mondo quanto in fondo rassicurante per i cittadini di una Russia tradizionalista e imperialista che della libertà ha più paura che desiderio e conta su di lui per un ordine cupo ma stabile e uniforme.
E il potere corrotto degli oligarchi appare, ai più, inevitabile. Un modello a cui gli aspiranti autocrati del mondo a cominciare da Trump si stanno chiaramente ispirando. —
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