Il Pkk entra nel gioco democratico: l’atto curdo ora non cada nel vuoto
Abbandonando la lotta armata, il Partito segue un sentiero già battuto da altre organizzazioni: anche il governo italiano può esercitare la sua influenza su Ankara

Quarantuno anni sono lunghi. Una vita intera. E sono proprio quarantuno anni, dal 1984, che il Pkk, il Partito curdo dei lavoratori, ha imbracciato la lotta armata. Sabato, una delle più longeve ed efficaci organizzazioni nazionalistiche a livello globale ha deciso di abbandonare le armi per entrare nel gioco democratico.
Di orientamento marxista alle origini, il Pkk ha lottato a lungo per ottenere la creazione di uno Stato indipendente per quel 20% della popolazione curda che vive sotto il regime turco di Recep Tayyip Erdogan, così come in Iraq ed in Siria.
Negli anni Dieci del 2000, lo storico leader Abdullah Ocalan ha rivolto un appello affinché le forze curde si ritirassero dalla Turchia. Gli accordi del 2015 avrebbero dovuto garantire la tutela dei diritti civili e linguistici dei curdi ma la tregua raggiunta era fragile e ad essa è seguita una serie di violente crisi.
L’utilizzo del terrorismo come strumento di pressione da parte del Pkk non ha fatto altro che fare il gioco di Erdogan: raccogliendo la solidarietà degli attori politici internazionali, come accaduto per gli attacchi di Diyarbakir e Kiziltepe, nel 2016, Erdogan ha capitalizzato il sostegno di Stati Uniti e Unione Europea, la quale, da inizio anni 2000, ha inserito il PKK nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Ma c’è un ma. Nell’ultimo decennio, le forze curde hanno giocato un ruolo importante nella sconfitta dell’Isis: i curdi dell’Iraq e della Siria hanno combattuto strenuamente contro il Califfato, perdendo un cospicuo numero di uomini e di donne (da sempre attive anche in prima linea). Un prezzo alto che il Comitato per la solidarietà del Kurdistan non ha mancato di sottolineare anche pubblicamente nei confronti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Se l’alleanza con i curdi è stata fondamentale nel combattere il terrorismo islamista, il momento di far valere quella pressione internazionale necessaria a far capitolare Erdogan sulla possibilità della creazione di uno Stato curdo non è invece mai arrivato.
Il Pkk compie ora una mossa fuori dal seminato. Consegnando simbolicamente le armi e passando – nelle parole di Ocalan – dalla lotta armata al gioco democratico, segue un sentiero già battuto da altre organizzazioni di lungo corso che hanno utilizzato estensivamente il terrorismo nella propria storia. È il caso dell’Irish Republican Army (poi Provisional Republic Army) irlandese, così come quello dell’Eta, il gruppo terroristico basco fondato alla fine degli anni Cinquanta: due organizzazioni terroristiche di matrice nazionalista che condividevano la longevità e l’obiettivo di creare una patria autonoma.
Il Pkk è probabilmente l’ultima delle storiche e strutturate organizzazioni violente che compie la scelta della via democratica e dell’abbandono alle armi. È sempre il leader in pectore, Abdullah Ocalan, agli arresti dal 1999, a chiederlo. E vista l’implicazione dell’Italia nel suo arresto di allora, forse il nostro governo potrebbe esercitare la propria influenza su Ankara affinché non faccia cadere nel vuoto il passo dei curdi. Una volta per tutte.
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