Le grandi riforme promesse dal centrodestra: il premierato fermo ai box
Scomparsa dai radar della politica la revisione costituzionale della forma di governo


Viaggiano a velocità variabile, le grandi riforme promesse dal centro-destra meloniano. Ma è soprattutto la più importante e caratterizzante fra queste ad essere sostanzialmente scomparsa dai radar della politica. Congelata. Forse implicitamente messa da parte. Ci riferiamo alla revisione costituzionale della forma di governo, riassunta dalla formula del premierato.
In attesa di accelerazioni da parte della maggioranza, nel mese scorso la Commissione affari costituzionali ha svolto ulteriori audizioni di autorevoli giuristi. Il progetto, dunque, non è ancora finito nella soffitta di Palazzo Chigi. Ma, in assenza di una chiara volontà politica, tanti progetti di legge rischiano di finire su un binario morto: muoiono con le legislature che ne hanno avviato il percorso.
Il premierato, come noto, attraverso l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, avrebbe dovuto rafforzare il governo. Stabilizzarlo. Metterlo al centro del sistema. La “premier” – termine entrato da tempo nel gergo politico – aveva fatto proprio l’obiettivo di rendere l’Italia un paese governabile. L’aveva presentato come il suo obiettivo primario: la madre di tutte le riforme.
In seguito, sembra essere prevalso il pragmatismo. In questo senso, Meloni ha fatto propria la lezione di Berlusconi. Il Cavaliere, nei suoi lunghi periodi alla guida del governo, ha sempre privilegiato obiettivi di corto raggio e, forse ancor prima, il suo stesso interesse. I grandi progetti di riforma, pur centrali nel discorso berlusconiano sin dal momento della discesa in campo, non sono mai stati perseguiti fino in fondo. Primum vivere. Le grandi riforme, semmai, vengono dopo. Meloni si muove sulla stessa linea.
Sembra essere, piuttosto, la revisione del sistema giudiziario ad avere guadagnato i ranghi di riforma prioritaria. Non solo perché (anch’essa) antica battaglia identitaria del centro-destra. Ma anche perché il governo immagina, forse, di poterla “vendere” meglio all’opinione pubblica.
E che presenti, almeno ad oggi, minori insidie in vista del referendum costituzionale. Non è invece previsto un referendum sull’autonomia differenziata. Riforma già approvata ma depotenziata dagli interventi della Corte costituzionale. Ma questo non sembra essere un problema per Meloni, il cui partito ha sempre prediletto una prospettiva nazionale. E forse nemmeno per Salvini, che comunque ha tenuto il punto per contenere i malumori interni alla Lega.
Meloni è dunque determinata a non correre rischi inutili. Del resto, a differenza di altri Presidenti del Consiglio – ogni riferimento a Renzi è puramente voluto – non ha certo bisogno di cercare in un referendum la legittimazione popolare. L’ha già ricevuta nel voto del 2022.
L’obiettivo della governabilità, allora, può essere rinviato. O raggiunto attraverso riforme meno impegnative (e forse più efficaci), come quella della legge elettorale. Meloni, in fondo, pare essersi convinta che il (suo) governo è già al centro del sistema. Che il paese è già oggi governabile. In questa legislatura, e magari anche nella prossima. Insomma, finché c’è lei
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