Il piano di pace su misura per Netanyahu

Il piano dei venti punti per Gaza ha il consenso di buona parte della comunità internazionale. Ecco cosa prevede

Renzo GuoloRenzo Guolo
Donald Trump e Benjamin Netanyahu
Donald Trump e Benjamin Netanyahu

Ha delle chances il “piano dei venti punti” per Gaza che Trump ha sottoposto a Israele e Hamas? L’organizzazione islamista, allo stremo militarmente e sul piano del favore popolare, sembrerebbe propensa al sì, come aveva fatto anche in altre circostanze: a condizione di chiarire alcuni dettagli.

In particolare Hamas chiede garanzie sul fatto che la guerra non riprenderà dopo che Netanyahu avrà recuperato gli ostaggi, sui tempi del ritiro dell’Idf, definito genericamente nel testo come «progressivo», termine che dice tutto e niente, sull’assicurazione che la leadership del movimento non sarà oggetto di futuri attacchi: chi può garantire che una volta raggiunta l’intesa, Israele rinunci a colpirne i suoi quadri più in vista, sia che vadano in esilio sia che, amnistiati, rimangano a Gaza?

Il piano, che ha il consenso di larga parte della comunità internazionale, prevede anche la smilitarizzazione della Striscia e la rinuncia a ogni ruolo di governo degli islamisti. Così come prevede la fine del blocco degli aiuti umanitari. Misura, questa, che, insieme all’esclusione dell’espulsione della popolazione da Gaza, alla ricostruzione della Striscia, alla liberazione di circa duemila detenuti nelle carceri israeliane, consente a Hamas di provare a recuperare almeno parte del consenso perduto sacrificando migliaia di civili indifesi alla guerra.

Quanto a Israele, che otterrebbe il rilascio degli ostaggi divenuti, dopo due anni, fattore di acuta tensione interna, deve rinunciare, oltre che alla completa eradicazione di Hamas dal panorama palestinese, alla strategica annessione di Gaza: anche se il piano Trump non esclude affatto la temuta colonizzazione della Cisgiordania. Incassa, però, l’interdizione dall’Anp a governare la Striscia: non sarà l’istituzione guidata da Abu Mazen, consegnata a un percorso di autoriforma che non offre alcuna garanzia né sui tempi né su chi dovrà valutarne l’esito, a gestire il potere, ma un organismo internazionale transitorio, composto da tecnocrati palestinesi ed esperti internazionali, sottoposto alla supervisione di Trump, Blair e altri leader, ed ex leader, graditi a Washington e a Israele. Funzione svolta con il sostegno di una Forza di stabilizzazione della quale dovrebbero far parte anche rappresentanze militari dei Paesi arabi.

È questo il punto più umiliante per i palestinesi che non si identificano con Hamas, nemmeno consultati nella stesura del piano: a dimostrazione che per Netanyahu e Trump quanti non condividono le posizioni degli islamisti sono, comunque, un problema, perché spendibili politicamente. Non è un caso che nemmeno si menzioni un futuribile Stato palestinese, ma si rinvii a un «credibile sentiero verso l’autodeterminazione».

Infine, lo spregiudicato Bibi ottiene, di fatto, la propria sopravvivenza politica: se l’estrema destra messianica dovesse infine uscire dal suo governo, ad assicurargli una maggioranza saranno allora altre forze . Il leader che sulla guerra aveva puntato tutto farà così della «pace imposta» la condizione della propria permanenza al potere. In caso di rifiuto di Hamas , invece, passerà all’incasso della promessa fattagli da Trump: il via libera allo scatenamento dell’inferno.

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