Il vero peso delle parole del Papa

Proclamare come meta da raggiungere quella pace «disarmata e disarmante» tra i popoli presupporrebbe che tutti gli Stati la volessero davvero. Non può passare attraverso il disarmo unilaterale di chi alla pace sinceramente anela: perché questo finirebbe solo per incoraggiare la “volontà di potenza” di altri Stati

Vincenzo MilanesiVincenzo Milanesi
Papa Leone XIV durante l'udienza alle Chiese orientali che celebrano il loro Giubileo
Papa Leone XIV durante l'udienza alle Chiese orientali che celebrano il loro Giubileo

L’attenzione con la quale il mondo partecipa all’avvio del pontificato di Leone XIV conferma che il Papa rappresenta globalmente a tutt’oggi la più alta guida spirituale: duemila anni dopo la venuta e la morte di Gesù di Nazareth, il Messaggio mantiene una valenza davvero “cattolica”, in senso etimologico, cioè universale, e diffonde oggi, forse più di altre religioni e addirittura più che nei secoli passati, una costellazione di valori ineguagliabili, destinati orientare la vita degli “uomini di buona volontà”, anche quindi di coloro che non si riconoscono nella visione escatologica di cui il Messaggio cristiano è portatore.

Per condividere la quale è necessaria la “grazia” di Dio, che è, nel senso originale della parola greca che la esprime, un “dono”. Resta tuttavia valida, pur con questo limite, l’importanza sul piano etico di quella costellazione di valori, ed è questo che conta e fa del Papa una guida spirituale senza eguali.

C’è però un rischio da non sottovalutare. Il Messaggio che Roma manda al mondo è «vox clamantis in deserto», e ha un significato “profetico”, in senso proprio, come ci insegnano i teologi: il “profeta” è colui che parla in nome di Dio, “dice” all’uomo la “parola di Dio”, che traguarda a un «regno che non è di questo mondo», che indica una meta che la Storia dell’uomo, che si svolge sotto il segno del Maligno, non potrà raggiungere.

Quella meta è, per dirla con Kant, un «ideale regolativo», un asintoto, cioè qualcosa a cui ci si può, e nella fattispecie ci si deve, avvicinare sempre di più, ma che non si toccherà mai, essendo possibile raggiungerla solo all’infinito.

Pensare di tradurre quella costellazione di valori in un programma politico tout court senza mediazioni, cioè senza comprendere che i valori devono essere incarnati e vissuti per quanto possibile nella situazione storica in cui quel programma politico viene proposto, crea pericolosi corto circuiti, e può dar luogo a eterogenesi dei fini proprio rispetto all’avvicinamento a quella meta.

Un paio di esempi, in breve, tanto per capirci. Proclamare come meta da raggiungere quella pace «disarmata e disarmante» tra i popoli, che pure è valore supremo, presupporrebbe che tutti gli Stati la volessero davvero.

Non può passare attraverso il disarmo unilaterale, o qualcosa che gli assomiglia, di chi alla pace sinceramente anela: perché questo finirebbe solo per incoraggiare la “volontà di potenza” di altri Stati sempre meglio armati a fare la guerra al “profeta disarmato”, creando condizioni di guerra invece che promuovere una situazione di pace. Che non può essere vera pace senza quella giustizia che non ammette che il più forte possa umiliare il più debole solo perché è più forte.

Il “pacifismo” a buon mercato è il peggior nemico della pace, una deterrenza efficace ne è il migliore alleato, perché crea situazioni in equilibrio delle forze in campo.

In modo analogo, l’accoglienza a migranti disperati che nulla hanno da perdere, migrando, se non la loro vita, le cui tragedie sono strazianti e pesano sulle nostre coscienze, se non tiene conto dei problemi che quell’accoglienza pone alle società in cui arrivano, finisce con il rafforzare proprio le forze politiche che di migranti da integrare non vogliono sentir parlare.

L’America di Trump insegna. Non basta voler, giustamente, “costruire ponti”, bisogna farlo riuscendo poi a farli stare in piedi, per evitare che alla fine poi siano costruiti i muri.

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