Dove nasce la fragilità americana
Non è con Trump che l’azione statunitense nel pianeta ha cominciato a manifestare fragilità: tra la tendenza ad assumersi responsabilità troppo grandi e quella a tirarsi indietro di fronte alle difficoltà. E alle impopolari ma eloquenti immagini delle bare avvolte nella bandiera americana che tornano negli Usa da diverse parti del mondo

Divisa tra la volontà di ostentare la propria potenza e quella di mantenere la promessa fatta all’elettorato di non coinvolgere gli Usa in nuove guerre, la politica estera di Donald Trump appare ondivaga, confusa, pericolosa.
Come del resto la sua politica interna, tra tendenze dittatoriali, attenzione alle lobby e agli interessi del grande capitale. Un risultato però il presidente venuto dall’edilizia e dai reality show lo sta ottenendo: concentrare tutta l’attenzione su se stesso, così che mentre i “suoi” lo sostengono fanaticamente, i critici tendono a vedere in lui la sola causa dei mali dell’America attuale.
Non è con Trump però che l’azione statunitense nel pianeta ha cominciato a manifestare fragilità: tra la tendenza ad assumersi responsabilità troppo grandi e quella a tirarsi indietro di fronte alle difficoltà.
E alle impopolari ma eloquenti immagini delle bare avvolte nella bandiera americana che tornano negli Usa da diverse parti del mondo. Pensiamo all’avventura in Iraq decisa da George W. Bush dopo l’11 settembre 2001: una «guerra al terrore» che, sulla base di informazioni dubbie e gonfiate, legava il dittatore iracheno Saddam Hussein al terrorismo di alQaeda attribuendogli armi «di distruzione di massa» (mai trovate).
Come molti ricorderanno, invece di portare la promessa democrazia quell’impresa precipitò l’Iraq negli scontri tra musulmani sciiti e sunniti in un caos dal quale non è ancora pienamente uscito, e favorì un’intromissione russa in Siria che ha avuto forse termine solo con la caduta del dittatore Assad.
In parallelo, Bush jr. lanciò un’altra azione, in Afghanistan, conclusa da Joe Biden circa vent’anni dopo con la resa senza condizioni a uno dei regimi più fanatici e intolleranti del pianeta, i Talebani. Sono proprio gli afghani che avevano creduto negli Stati Uniti ad aver pagato il prezzo di quella resa.
Si possono citare anche altri precedenti, vedi l’intervento al fianco dell’Onu in Somalia nel 1993 sotto la presidenza Clinton, finito in una precipitosa fuga, come mostra il film Black Hawk Down.
A unire tutte queste (disastrose) azioni c’è un’idea di fondo: quella che gli Usa, tanto più dalla fine della guerra fredda con l’Urss, possano e debbano assumersi il ruolo di “poliziotti del mondo” contro forze definite criminali, forze che in diversi casi come proprio Iraq e Afghanistan erano state sostenute fino a poco prima dagli stessi Usa.
Ma c’è anche la convinzione che un tale ruolo di controllo possa essere esercitato soprattutto dall’alto, grazie alla superiore potenza di bombardieri, elicotteri, strumenti elettronici, oltre che col ricorso a torture e altri crimini. Così, in vari Paesi, gli americani hanno preteso di instaurare la democrazia senza conoscere la società e neppure parlare le lingue, mentre in Iran Trump pensa di avere risolto tutto con un giorno di bombardamenti “definitivi”.
Il sogno di un controllo totale sul pianeta senza troppi rischi per i soldati americani non è cominciato con lui. E non è solo nel suo caso che una politica sconsiderata è stata decisa mettendo a tacere qualsiasi parere contrario, prima di tutto quelli di chi quei Paesi li conosce davvero.
È anche per questo che sia Putin che Xi-Jinping non sono intervenuti nella vicenda iraniana se non con dichiarazioni generiche. Aspettano che gli Usa paghino ancora una volta il prezzo di una gestione aggressiva quanto dilettantistica della loro potenza.
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