Nuovi mercati e Ai: ecco le strade per superare lo choc dei dazi
Nel medio periodo gli effetti delle tariffe di Trumpo rischiano di pesare parecchio sulle aziende. Ma le difficoltà possono trasformarsi in opportunità.

Risulta francamente difficile spiegare con gli strumenti dell’analisi economica l’accordo commerciale annunciato domenica scorsa da Donald Trump e Ursula von der Leyen. Dal lato europeo la disfatta è evidente su più fronti. L’accordo risulta infatti del tutto asimmetrico, con tariffe all’export triplicate rispetto quelle precedenti il “Libreation day”, mentre vengono ridotte a zero per le importazioni americane in Europa.
Se nel breve termine le conseguenze per l’interscambio potrebbero rimanere contenute, nel medio periodo gli effetti possono invece diventare pesanti, specie per industrie che hanno già un’organizzazione multinazionale, come automotive, farmaceutica e occhialeria. In questi casi c’è un chiaro incentivo al trasferimento delle produzioni europee oltre Atlantico, da dove sarà non solo possibile servire direttamente il mercato americano, ma anche quello europeo a tasso zero, creando un inspiegabile squilibrio competitivo.
Anche tralasciando l’impegno europeo di acquistare armi ed energia dagli Stati Uniti, va sottolineato come l’accordo non indichi alcuna reciprocità nemmeno nei confronti dell’industria americana di servizi digitali, per la quale sarebbe stato opportuno individuare incentivi per l’insediamento in Europa, limitando la vergognosa elusione fiscale che l’Ocse stima in 300 miliardi di dollari l’anno.
D’altro canto, è difficile vedere grandi vantaggi economici anche dal lato Usa. Una tariffa del 15% su 500 miliardi di importazioni di merci dall’Europa costituisce una tassa sul consumo che ben presto si farà sentire nei bilanci di famiglie e imprese. Allo stesso tempo, gli investimenti diretti negli Usa richiederanno nuova manodopera che le politiche migratorie della Casa Bianca non sembrano favorire.
Per cercare di limitare i danni le associazioni di imprese hanno già iniziato a batter cassa al governo nazionale e all’Ue. La strada dei sussidi compensativi non è tuttavia percorribile. Per quanto ci siano imprese particolarmente colpite da questo accordo – solo nel Nord Est gli esportatori coinvolti nel mercato americano sono novemila, un terzo dei quali esposti per oltre il 50% delle proprie vendite estere – le risorse pubbliche andrebbero impiegate in politiche attive per aiutare queste imprese a diversificare i mercati (a partire dalla stessa Europa), incentivare l’innovazione (in particolare sul fronte digitale e dell’Ai) e rinnovare il modello di business. Ad esempio, la Regione Veneto sta sperimentando lo strumento dei progetti integrati di filiera che, attraverso azioni di formazione, consulenza mirata e sostegno finanziario, promuovono accordi di rete tra Pmi per sviluppare nuove strategie di presenza sui mercati internazionali.
Verso gli Stati Uniti diventa infatti necessario andare oltre l’export, puntando ad accordi di fornitura, licenza e franchising. Le Pmi devono perciò essere aiutate a individuare partner affidabili oltre oceano, creando in patria nuovi servizi per favorire il reinvestimento produttivo degli utili e tutelare la proprietà industriale.
Come in molte situazioni, le difficoltà possono aguzzare l’ingegno e, perché no, trasformarsi in opportunità. Il momento per cambiare passo nella politica industriale non può più essere rinviato.
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