Dazi, tutti i dubbi che l’intesa Usa – Europa non scioglie
Il metodo The Donald è un generatore di caos. C’è da augurarsi che abbia ragione il premier irlandese che parla di “intesa-quadro che metteremo a posto nei prossimi mesi” in un clima di conflittualità sospesa


Magari un giorno scopriremo che, come giura Donald Trump, è davvero il più grande accordo bilaterale di tutti i tempi, con i suoi 1,8 trilioni di scambi per 800 milioni di cittadini. Al momento, però, l’intesa commerciale fra Usa e Ue appare un cantiere aperto e affollato di interrogativi. Per cominciare, non sappiamo chi, come e quando convincerà le imprese private europee a investire i 600 miliardi promessi all’economia americana. Ignoriamo poi come saranno concertati gli ordini da 750 miliardi in tre anni per gas naturale liquefatto e combustibili nucleari estratti e prodotti oltre Atlantico.
Lo stesso per i 150 miliardi destinati alle armi dello Zio Sam. Ancora, per esempio, sfugge se il vino sia col dazio al 15 per cento o no. E manca la lista dei prodotti agricoli statunitensi che accoglieremo senza tariffa, siano essi mandorle, soia, carne di bisonte o cibo per cani. I tecnici sono al lavoro sulle due sponde per far chiarezza entro venerdì. Ma non è per nulla detto.
Il metodo The Donald è un generatore di caos. “È il presidente che decide”, ripetono a Washington, e questo costituisce una minaccia più che una rassicurazione.
Non c’è stato un vero negoziato preparatorio. A parte la possibilità che il patto venga rimesso in gioco perché non tutto quadra, il processo rivela elementi che contraddicono l’auspicio di trasparenza e stabilità con cui le parti firmatarie hanno salutato l’intesa. Il punto di avvio è il 15 per cento di dazio in molti settori a partire da auto, semiconduttori e farmaceutica; è unilaterale, nel senso che si applica solo all’export europeo, quindi è sbilanciato, come permettere che i Suv americani arrivino senza pagare neanche un fiorino.
Una serie di settori sarà a prelievo nullo nei due sensi, l’aeronautica, alcuni prodotti chimici, apparecchiature per semiconduttori, taluni prodotti agricoli, risorse naturali e materie prime critiche: l’elenco non è compiuto. Di siderurgia, tema sorvolato in bilaterale nonostante il tributo al 50%, si parlerà “per elaborare un approccio comune” che “affronti anche il tema delle sovraccapacità”. In futuro.
È facile che sulle questioni tecniche specifiche si possa trovare una quadra. La rimanente partitura non è scritta e Trump ha venduto all’opinione pubblica una pioggia di investimenti europei che la Commissione non ha potere diretto di mobilitare. Giustamente, Bruxelles deve stare fuori dalle scelte delle imprese. Può fare moral suasion su sistemi retti da governi uniti più che altro dall’approccio problematico alle questioni comuni, come si è visto nella blanda energia negoziale iniettata nel Team Ursula prima del duello con The Donald.
A Palazzo Berlaymont si assicura che i 600 miliardi son frutto di messaggi ricevuti dall’industria. Certo che nelle capitali potrebbero chiedersi perché dare soldi a chi investe in Trumplandia e non a chi lo fa da noi, e ancora perché un distributore debba caricarsi di energia americana dal prezzo salato. C’è da augurarsi che abbia ragione il premier irlandese che parla di “intesa-quadro che metteremo a posto nei prossimi mesi” in un clima di conflittualità sospesa. Però, sul fondo, c’è il rischio dei rischi.
È che, col passar del tempo, Trump cambi idea e ricominci da capo. Lo temono in molti. Soprattutto quelli che, guardando indietro, non rimangono convinti che un’Europa ispirata da governi compatti, coraggiosi e meno accomodanti avrebbe ottenuto molto di più per le sue imprese e i suoi cittadini.
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