Il nostro Natale: la guerra, la pace e l’umanità malata
Nel giorno della nascita di Gesù, la speranza di una giustizia portatrice cristiana di autentica libertà

Gli angeli che annunciano ai pastori la nascita di Gesù a Betlemme cantano la gloria di Dio nei cieli e la pace in terra «per gli uomini di buona volontà». Il Cristianesimo è fin dal momento in cui Gesù di Nazaret fa la sua comparsa sulla scena del mondo una religione di pace.
Fondata sul comandamento dell’amore. Il comandamento “nuovo” che leggiamo nel Vangelo di Giovanni: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Da qui nasce l’universalismo su cui si fonda questa religione, che caratterizza le comunità delle origini, predicato da Paolo nella lettera ai Galati: un universalismo che annulla tutte le differenze, che cancella la nozione di “popolo eletto” di derivazione giudaica.
Nella sua millenaria storia, il Cristianesimo delle gerarchie ecclesiastiche non ha saputo obbedire a quel comandamento. Da quando si è fatto religione dell’impero di Roma, trasformatosi in un impero “sacro” con Carlo Magno.
Per secoli, fino a quando l’esigenza di una renovatio ecclesiae manifestatasi con la “rinascita” dopo l’anno Mille ha fatto incontrare (o meglio, re-incontrare) la religione cristiana con l’umanesimo greco, nel primo Cinquecento: quando Erasmo da Rotterdam ha dato forma con il suo pensiero e i suoi scritti a quella devotio moderna con la quale la teologia del Cristianesimo si è profondamente rinnovata, contrastando efficacemente la Riforma predicata da Martin Lutero. Ma le gerarchie ecclesiastiche non hanno saputo accogliere il richiamo di Erasmo al Messaggio delle origini, e ne hanno messo all’indice le opere.
L’interpretazione del Cristianesimo proposta da Erasmo, dopo secoli di oblio, ha consentito un rilancio, per così dire, di quel Messaggio delle origini aprendo lo spazio per un dialogo con il mondo contemporaneo: su quella base è stato costruito il Concilio Vaticano II, nella seconda metà del Novecento, che segna una svolta decisiva per le sorti della religione cristiana.
Quella del Pontefice di Roma è ormai riconosciuta come la voce più alta che parla di pace a un mondo lacerato dalle guerre: «Mai più la guerra! Mai più la guerra!» grida ai potenti della terra Paolo VI, grande Papa interprete fedele di quel Concilio, peraltro sviluppatosi sotto la sua guida, nel famoso discorso pronunciato nel Palazzo di Vetro dell’Onu, a New York, nel 1965.
Il grido “erasmiano” di Papa Montini è sicuramente quello di una «vox clamans in deserto», ma non scaturisce da una lettura ingenua della storia umana: riconosce, senza illusioni, che «finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile, e anche cattivo, quale spesso di dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo». Si tratta di un realismo che rimanda, evidentemente, al pensiero di Sant’Agostino, e sa che la pace, per essere vera pace, non può tollerare la sopraffazione e deve essere giusta: «Pax opus iustitiae».
Nella Palestina devastata in cui i bambini vengono fatti morire di fame e di freddo, nell’Ucraina invasa dove civili inermi sono bombardati ogni notte, ma anche là dove nel mondo prevalgono gli egoismi del «prima NOI» (leggi: «America First»), possa la nascita di Gesù far rinsavire un’umanità folle di odio e di rancori, vittima dei suoi propri egoismi, nel nome di una pace che è figlia di una giustizia vera, e portatrice di una autentica libertà.
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