Morte e macerie: i volti di Gaza e i Campi Flegrei della civiltà

Ieri come oggi madri disperate e bambini dilaniati: il perseguitato che diventa persecutore. Basta cullarsi con i Nobel per la pace: è ora di diventare adulti. Altrimenti restano solo le bombe

Fulvio ErvasFulvio Ervas
Civili corrono al riparo dopo un attacco aereo israeliano a ovest di Gaza City
Civili corrono al riparo dopo un attacco aereo israeliano a ovest di Gaza City

Conobbi la sofferenza patita dal popolo ebraico nei primi anni del liceo, grazie a un docente di storia che ci parlò dei campi di sterminio e ci mostrò delle immagini. Prima ne avevo sentito parlare, ma vedere e collocare quei corpi e quei volti in un momento storico e averne una spiegazione fu un salto cognitivo, una coordinata insostituibile, e mai dimenticata, per comprendere il mondo in cui vivevo.

Erano poche foto, probabilmente note a molti: un gruppo di donne, dietro un filo spinato, con i capelli raccolti dal velo; uno sciame di bambini con gli occhi spalancati di chi non può comprendere e quelle camerate, con letti a castello, riempiti di persone oramai trasparenti. Poi i binari che conducevano dentro al lager di Auschwitz: salite su quei binari, diceva il professore, e non potrete più salvarvi.

Non capii allora che cosa significasse davvero. Pensavo che ogni treno potesse essere fermato dal suo manovratore. Anzi, mi convincevo che quelle immagini crudeli potessero essere non solo un monito, ma un antibiotico contro la ripetizione di fatti della stessa natura.

Quando guardo, le guardiamo tutti, le immagini che arrivano da Gaza di settimana in settimana, mi tornano alla mente quelle fotografie viste al liceo. Anzi, la sofferenza che affiora sui volti del popolo palestinese appare ancora più intensa.

Non ci sono le divise dei lager, ma c’è lo stesso smarrimento profondo. Quello di persone che evaporano nell’incertezza assoluta, dal cibo all’attesa della morte che arriva dal cielo, non da stelle cadenti, ma da sistematici bombardamenti.

Viene da chiedersi quale effetto avrebbe prodotto se ci fosse stata, oramai più di ottanta anni fa, la tecnologia attuale, capace di mostrare in tempo reale, all’intero mondo, agonie, asfissie, tormenti dei corpi del popolo ebraico. Avrebbero indietreggiato gli sterminatori nazisti?

Non si può rispondere.

Anche oggi non si riesce a capire come l’oceano di immagini con bambini malamente stesi su improvvisati tavoli operatori, madri che stringono figli uccisi da schegge di potenza distruttiva, non provochi, in chi le mette in atto, un senso del limite. La percezione del troppo. Che poi è anche quella dell’inutile. Quando si varca la soglia dell’oltre ci si trova in un territorio dove la crudeltà si alimenta di crudeltà.

Non c’è dubbio che è stata Hamas, il 7 ottobre 2023, a mettere il popolo di Gaza sui binari, ma chi sta guidando il treno verso la perdita di ogni salvezza è il governo Netanyahu. Ed è questa convergenza nella tragedia di due popoli che fa disperare la ragione: il perseguitato di ieri che perseguita.

E fa disperare la ragione perché questa vicenda assume il valore simbolico di come procede l’umana storia. Mostra, anche se abbiamo innalzato cattedrali e grattacieli, musei su guerre e stermini, anche se dichiariamo di amare e volere la pace e ci deliziamo con i Nobel dedicati a essa, che abbiamo edificato ogni nostro vanto sopra i Campi Flegrei.

Sotto vi ribolle, senza sosta, un magma perverso che scuote e sconquassa periodicamente il nostro senso di civiltà. Perché l’Antropocene, cioè l’epoca del dominio dell’Homo sapiens, non è solo caratterizzato da una progressiva aggressione all’intero pianeta, è un permanente conflitto tra organismi dello stesso tipo.

Come può renderci fieri una storia che veda un popolo costretto a scappare nei bunker e l’altro a smarrire ogni barlume di futuro? Di fronte ai fatti, l’ingenua ragione si ostina a chiedere come mai un popolo che abbia rischiato lo sterminio, e sia diventato uno Stato militarmente potente, non percepisca che sta riproducendo quello che aveva subito e, allo stesso tempo, un popolo che sta subendo non comprenda che non può aspirare alla distruzione di un popolo con quello specifico passato senza condannarsi.

È un fallimento a cui stiamo assistendo, di enorme portata. Si è arenata l’illusione che l’orologio della Storia avanzi progredendo.

Fra qualche decennio, le nuove generazioni di un mondo che ancora non stiamo costruendo si troveranno a osservare, come feci io da ragazzo, le foto della shoah assieme a quelle di Gaza e vedranno lo stesso dolore. Diranno che non c’è stato alcun cambiamento qualitativo. Che il progresso che millantiamo si manifesta solo negli oggetti, nella materia inanimata e senza emozioni. Che rimaniamo figli del magma sotto i Campi Flegrei della civiltà.

La storia furiosa in cui stiamo vivendo che cosa, quindi, ci sta chiedendo? Di ignorare? Di lasciare che chi confligge s’arrangi, che vinca chi bombarda di più, come tra russi e ucraini? Insomma, di attenerci alla nostra quotidianità, in attesa della grande eruzione?

Non è invece tempo di diventare adulti e pensare davvero al futuro? Magari informandoci, discutendo, provando a costruire coscienza. Che i silenzi del disinteresse, nelle grandi faccende umane, non funzionano. Lo sappiamo già. Lo raccontano le immagini della Storia. Nella quale deve imporsi un senso di umanità che ragiona. Altrimenti restano solo le bombe. D’ogni sorta.

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