Meloni irride Schlein ma teme il referendum
Giorgia Meloni domina la scena politica tra Atreju e il referendum sui giudici, mentre Elly Schlein fatica a costruire un fronte unitario nel Pd. Due stili opposti, due leadership a distanza e una bilancia che oggi pende a favore della premier

Dalla sua intemerata di ieri, si capisce che Giorgia Meloni ha una sola vera paura. Di perdere il referendum sui giudici a marzo, da cui prova a tirarsi fuori. Quando dice «fregatevene di me, votate per misure giuste, questo governo resta in carica comunque», la premier prova a sfilare l’arma clou dallo zaino della sua rivale.
Ma se Matteo Renzi dice che le foto di gruppo dei leader sul palco portano male, resta il fatto che ieri Giorgia Meloni l’ha potuta fare, mentre Elly Schlein l’ha potuta solo evocare, brillando di luce propria e solitaria dalla cerimonia del Pd: che era tutto fuorché una festa, visto che la minoranza dem chiede «più democrazia interna» e resta agguerrita se pur sottomessa. E perché il presunto alleato Giuseppe Conte non solo si tiene le mani libere, ma si becca anche una reprimenda degli scudieri di Elly per aver «ammiccato alle politiche trumpiane». Insomma, due film diversi, con la bilancia che pende dalla parte di Meloni, sorridente accanto a Salvini e Tajani che giurano fedeltà.
Buca il video Giorgia, anche da premier combatte con il fuoco sacro della leader di opposizione, gioca due parti in commedia, rubando la scena all’avversaria. Lei ha un nemico, Elly invece sorride placida quando spiega che «la coalizione progressista non è contro qualcuno, o contro il governo, ma per far prevalere ciò che unisce». E via a snocciolare le proposte scritte con 5 stelle e Renzi sui salari e sulla legge di bilancio, embrione di un programma comune, pregando tutti di «non enfatizzare le differenze».
Due leader dunque, Giorgia versus Elly, un confronto a distanza, due stili oratori, due modi di infiammare le proprie platee, quella di Atreju di FdI e quella dell’assemblea nazionale del Pd. Ma con una profonda diversità di approccio. La prima innaffia la sua verve con la missione esistenziale che la anima, si direbbe pre-politica, trasmessa nella chiusura identitaria del suo discorso. Quel «ricordatevi da dove veniamo, che siamo nati per stupire e incidere, per fare qualcosa di grande, per accendere la scintilla di cuore in cuore, di città in città, fino a farla divampare ovunque», tocca l’animus della sua gente. Illumina l’orizzonte la premier, sa di aver regalato ai suoi una rivincita, quella evocata da Salvini che ricorda «sputi, schiaffi e calci della sinistra».
Mentre la sua avversaria resta con i piedi per terra, pragmatica, suadente nei toni mai urlati, con timbro di voce morbido e mai arrabbiato, quasi a voler interpretare lo slogan di “forza tranquilla” con cui Francois Mitterand vinse le elezioni. Meloni (e prima di lei, Salvini) portano invece sul palco l’avversario da abbattere, irridono i suoi vizi, i suoi tic, attuano una demolizione brutale del recinto ideologico e valoriale di una sinistra ridotta a macchietta.
E mentre Giorgia sfotte, «abbiamo riunito noi il campo largo qui ad Atreju, con Renzi, Conte, Bonelli, Magi e Calenda, ma l’unica assente è quella che dovrebbe federarli», lei, la Schlein, le ricorda le sconfitte subite dal “campo largo” alle regionali e quanto è cresciuto il “suo” Pd, avvertendola che la partita è tutta aperta. Alla fine resta sul terreno solo una pallida unità, se pur traballante, nello schierarsi con l’Ucraina. «Nessuna nostalgia della Russia», dice Giorgia. «Siamo e restiamo a fianco di Kiev», giura Elly. Unico, timido, punto in comune, la diga anti-Putin, che subito evapora quando si passa al ruolo che ha l’Europa. —
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