Meloni glissa sul flop del vertice in Alaska
Che a uscire perdenti siano Trump, l’Europa, Zelensky; e vincenti i russofili più o meno nascosti, è chiaro a tutti. E in Italia? Tutti in qualche modo perdenti

Che a uscire perdenti siano Trump, l’Europa, Zelensky; e vincenti i russofili più o meno nascosti, è chiaro a tutti.
E in Italia? Tutti in qualche modo perdenti: il centrodestra dei filo trumpiani, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, ma anche i cantori dell’Europa come Antonio Tajani. E se, al pari del tycoon a stelle e strisce che non ha strappato un “cessate il fuoco”, è il vecchio continente a mostrare la sua debolezza tattico-strategica, anche nel centrosinistra molti sono in affanno.
Lo è la segretaria Pd Elly Schlein, che tentenna tutto il giorno prima di dire una parola, per poi finalmente criticare il fallimento del vertice. Lo sono i compagni della sinistra, che – per non passare da “laudatores” della vecchia e amata Russia – evitano di pronunciarsi. Forse è meno in affanno il leader dei 5stelle Giuseppe Conte, lesto a far notare che «ora all’Europa del riarmo non resta che un ruolo da comprimario».
Ruolo che brucia ai riformisti dem, tanto che la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno del Pd, spera in una «reazione definitiva dell’Europa» per dotarsi di una difesa comune che possa proteggere l’Ucraina. Insomma che a uscire perdenti siano Trump, l’Europa, Zelensky; e vincenti i russofili più o meno nascosti, è chiaro a tutti.
Ma nella congerie di reazioni all’evento del secolo, come è stato inopinatamente battezzato il summit, è forse Kaja Kallas, Alta rappresentante Ue per la politica estera, a produrre la più affilata critica alla debolezza di Trump: perché «gli Usa hanno il potere di costringere la Russia a negoziare seriamente». Ergo, Trump non lo ha voluto fare, deliberatamente o per incapacità di domare il più abile e strutturato Putin. E chi lo elogia, ora deve ricredersi. Argomenti che riecheggiano nel piccolo teatro della politica italiana, dove si affastellano i colpi verso il governo che (al contrario di Trump) deve lavorare ad un “cessate il fuoco” (Alessandro Alfieri del Pd). E dove spicca, sul palcoscenico del centrodestra, il malcelato sconcerto di chi è obbligato a vedere il bicchiere mezzo pieno: la premier, che dopo la tautologica constatazione «la strada per la pace non è facile ma è stata intrapresa», fa filtrare un presunto interesse del tycoon per «l’idea italiana di garanzie di sicurezza ispirate all’articolo 5 della Nato». Tajani che si compiace perché «oggi è stata sancita l’unità europea per una pace giusta»: magra consolazione rispetto alla minaccia di Putin che non vuole interferenze dell’Ue sul processo di pace, ove mai avesse inizio. E i meno distanti dalla Russia di Putin? Salvini, non potendo lanciarsi in encomi dello zar, dispensa un commento pastorale, «ogni passo avanti per la pace è una buona notizia». Ma è lecito immaginare che concordi con il Patriota Orban, convinto che «il disgelo Usa-Russia rende oggi il mondo più sicuro» e con il premier slovacco Fico, che si scaglia contro il «fallimentare sforzo europeo di indebolire la Russia». I filo trumpiani escono ammaccati da questo summit, al pari dei filo-Ue, costretti a fare buon viso a un pessimo gioco messo in luce da tutti gli osservatori internazionali, a cominciare da New York Times e Washington Post. Severi nel constatare come Trump abbia fallito la sua missione. Non stupisce che Meloni si appoggi sulla spalla di Von Der Leyen allineandosi agli altri leader europei senza spendere una buona parola per l’amico Donald. In fondo, tenere la barra dritta in difesa delle ragioni dell’Ucraina è la mossa più saggia.
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