L’Italia povera taglia le vacanze
L’estate 2025 è caratterizzata dalla netta riduzione delle presenze nelle spiagge, di quasi il 30%. D’altronde i salari hanno perso tra il 2019 e il 2024 il 10,5% del valore reale


C’è un dato, vistoso, che caratterizza questa estate 2025: la netta riduzione delle presenze nelle spiagge. Di quasi il 30% secondo i calcoli. Ne ha tratto spunto, inizialmente, una polemica gridata e superficiale, ora si comincia a riconoscere la dura realtà: gli italiani vanno meno in vacanza perché sono più poveri. Ma anche su questo tema la contesa tra destra e sinistra resta generica, mentre occorrerebbe qualche considerazione più meditata. E scomoda per entrambe.
Era inevitabile forse che la discussione si concentrasse in un primo tempo su un tema a lungo dibattuto: quello delle concessioni balneari, che l’Ue richiama l’Italia a rendere competitive sottoponendole a gare regolari, mentre i partiti di governo si sono fatti paladini di chi gli stabilimenti li gestisce da decenni come proprietà privata pur occupando spazi per definizione pubblici, e sottraendo allo Stato, cioè a tutti noi, buona parte dei tributi che altrimenti dovrebbero.
Forti di questo appoggio, molti stabilimenti hanno aumentato i prezzi, innescando quel circolo vizioso per cui minori sono le presenze più si cerca di rifarsi su coloro che comunque in spiaggia ci vanno, e così più si scoraggiano i possibili altri arrivi.
Molte parole si sono spese, da una parte per cercare di sminuire la gravità del problema - lo ha fatto una ministra del Turismo che si sarebbe già dovuta dimettere per inadeguatezza anche al di là dei guai giudiziari -, dall’altra per ribadire accuse contro il governo che per quanto motivate in questo caso finiscono, a furia di ripeterle, col suonare vuote.
Ora politica e media cominciano a riconoscere la causa principale di questo calo: quando si riducono le risorse, le famiglie tagliano le spese che possono essere considerate “superflue”, la vacanze prima di tutto. E che le risorse si stiano riducendo lo ha chiarito già a maggio il rapporto annuale dell’Istat.
I salari hanno perso tra il 2019 e il 2024 il 10,5% del valore reale: in cifre nominali restano fermi, nella realtà l’inflazione li erode. Ma non basta riconoscere che è quello il vero nodo irrisolto, se poi si cade di nuovo in una polemica vaga e strumentale nella quale tutte le parti dichiarano di volere difendere il reddito degli italiani e nessuno va oltre le enunciazioni generali.
La realtà è che la destra preferisce concentrarsi su altre campagne, sulla promessa di “sicurezza” e soprattutto sull’azione contro gli immigranti, istigando il risentimento degli italiani impoveriti contro qualcuno da cui si sentono minacciati ma è più debole di loro.
E la sinistra? Certo, c’è la battaglia per il salario minimo, ma questa riguarda solo una parte dei lavoratori e per ora non ha ottenuto risultati, anche perché i più sfruttati non andrebbero difesi solo con le norme, ma agendo sul territorio contro le tante situazioni in nero che le leggi neppure toccano.
Chi tutela gli altri, quei tanti redditi bassi e medi colpiti dall’inflazione e dalla staticità dei salari? Non certo i disastrosi referendum voluti dalla Cgil di Landini, o la scelta della segretaria Pd di sostenerli. Né, in generale, i sindacati divisi e concentrati a occuparsi solo di alcune categorie, ma incapaci di difendere i redditi di milioni e milioni di famiglie. Che si sentono costrette a ridurre o tagliare del tutto le vacanze, come fossero un lusso, mentre dovrebbero essere un sacrosanto diritto dopo un anno di lavoro e in un’estate torrida.
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