Le incognite di una manovra senza Pnrr

Senza i fondi europei l’Italia sarebbe già in recessione. La manovra che il governo presenterà martedì deve puntare su innovazione, formazione e imprese, non su bonus e misure transitorie. Bankitalia invita a investire in crescita strutturale e ridurre il debito

Marco ZatterinMarco Zatterin
Manovra 2026, l’ultima spinta del Pnrr: servono riforme vere per evitare la recessione
Manovra 2026, l’ultima spinta del Pnrr: servono riforme vere per evitare la recessione

La manovra 2026 che il governo presenterà martedì è, in teoria, l’ultima che può contare sul doping del Pnrr. Tutti si attendono che l’Europa conceda una proroga, ma le strategie di crescita di Paese dall’alto debito e dalla bassa produttività andrebbero programmate al netto di ogni calcolo di probabilità, sono una storia non fondabile sui “se”. Senza i finanziamenti agevolati e gli stanziamenti a fondo perduto accordatici dall’Ue, l’Italia sarebbe in recessione. Vuol dire che c’è bisogno di agire sui reali fattori di crescita, sugli stimoli alla domanda e all’offerta, con un respiro che non sia inchiavardato al breve termine e alle esigenze elettorali. Prospettiva che, festeggiata la “meritoria e doverosa” prudenza nella gestione delle finanze pubbliche (Bankitalia dixit), non è stata adottata come stella polare dalla maggioranza e dai suoi esponenti.

Le indiscrezioni sul Bilancio che fioccano copiose vanno contromano. L’ultima racconta di un rinnovo del bonus casa, operazione da 1,5 miliardi, mentre si ragiona sul bonus mobili e ci si fa in tre per consentire la rottamazione delle cartelle, provvedimento che premia chi non paga le tasse e sbeffeggia chi lo fa. Si tratta di scelte dalla ricaduta limitata sulla congiuntura. Il bonus casa può infatti sostenere l’edilizia, ma alimenta un comparto dove la manodopera ha la ricorrente tendenza a essere precaria; genera sì consenso, però spinge il costo dei materiali oltre che dei cantieri, con ricadute sulle collettività.

La ricetta di Via Nazionale auspica saggiamente riforme strutturali che sostengano innovazione e crescita. Suggerisce di «aumentare le risorse a favore di investimenti, ricerca e istruzione e, contestualmente, razionalizzare le spese fiscali, rimuovendo gli elementi del sistema tributario che scoraggiano la crescita dimensionale delle imprese, arginando l’erosione della base imponibile dell’Irpef». Si tratta di aiutare le aziende a offrire impieghi stabili, i lavoratori a sviluppare le competenze per il mondo che cambia, dunque generare un circolo virtuoso che sostenga la domanda interna in una fase in cui quella esterna zoppica nell’imbizzarrito mare del trumpismo.

Ogni governo deve fare ciò che deve e ciò che può, a maggior ragione nel momento appaiono molteplici le variabili esterne che non possono esser controllate direttamente, come i conflitti militari e le guerre commerciali, per non parlare di clima, migrazioni e crisi demografica. Di fronte a un’incertezza dirompente, bisogna andare sul solido, agire sui moltiplicatori di sviluppo, sulle diseguaglianze sociali (sanità e welfare) e culturali (scuola e formazione). Minimizzare le misure transitorie, insomma, e mettere carburante nel motore di chi il valore aggiunto lo produce con determinazione, cioè commercio e imprese virtuose.

Oltre a questo, si deve tagliare il debito, poi tifare per i nuovi fondi per lo sviluppo del mercato unico europeo e persino per la Germania. Non è una provocazione. Le nuove previsioni tedesche dicono che il Pil 2026 salirà dell’1,3% e Bloomberg stima che questo vale uno 0,4 di prodotto in più per l’Italia, guarda caso la stessa crescita che l’indipendente Ufficio parlamentare di Bilancio ci attribuisce per l’anno venturo. Possiamo sperare di salvarci col Pnrr o con Berlino. Ma sarebbe bello che lo facessimo da soli (si può), guardando oltre il prossimo voto e limitando (per quanto possibile) mance e mancette che non portano lontano. 

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