L’attacco di Trump a Zelensky: il potere ridotto a prepotenza
Lo scontro alla Casa Bianca ha messo a nudo, come nessuno aveva fatto finora, la logica che ha guidato l’azione del presidente statunitense nei primi quaranta giorni del suo mandato


Si può leggere lo scontro alla Casa Bianca fra Trump - spalleggiato dal suo vice - e Zelensky come il pretesto voluto e costruito per un abbandono definitivo dell’Ucraina da parte degli Usa. Ma si può anche dire che, tenendo il punto sulle sue posizioni, Zelensky ha messo a nudo come nessuno aveva fatto finora la logica che ha guidato l’azione del presidente statunitense nei primi quaranta giorni del suo mandato.
Questa logica non deve essere letta nei contenuti dei suoi blitz quasi quotidiani, a volte violenti fino alla criminalità (la pulizia etnica di Gaza per farne una località turistica), a volte balzani come la pretesa di fare dell’immenso Canada il cinquantunesimo stato dell’Unione, spesso improvvisati e devastanti come il cosiddetto Dipartimento per l’efficienza governativa che sta mettendo a soqquadro l’intera amministrazione federale o come il gioco dei messaggi postati e ri-postati. Quello che conta sono soprattutto i tempi e i modi del comportamento presidenziale: frettoloso, brutale, incurante di tutte le istituzioni e di tutte le regole.
Finora questo modo di procedere ha permesso a Trump di restare ogni giorno al centro della scena, cosa che nella sua mentalità formatasi nel business immobiliare e nei reality show è assolutamente prioritaria. Ha paralizzato i suoi avversari, a cominciare dal partito democratico che ha subìto anche le scelte più estreme come la nomina a ministro della sanità di un cospirazionista no-vax senza riuscire a mobilitare minimamente l’opinione pubblica. Soprattutto ha creato una serie di fatti compiuti dai quali sarà difficile tornare indietro, stabilendo precedenti pericolosi e contando - in caso di giudizio della Corte Suprema - sulla maggioranza in suo favore costruita nel suo primo mandato. Del resto, anche gran parte dei media ha attribuito al presidente un’aura di invincibilità e di inarrestabilità che ha favorito ulteriormente la sua azione.
Ma questo modo di procedere è solo apparentemente abile e vincente. Prima di tutto la fretta può produrre risultati che ci si dovrà ben presto rimangiare. Solo un esempio fra i tanti: lo smantellamento nella distruzione sistematica di molte istituzioni del centro per il controllo dell’Ebola, una delle malattie più letali esistenti.
Elon Musk ha tuttavia dichiarato di avere subito revocato la chiusura del centro, come a sottolineare che il suo “dipartimento” sa correggere i propri errori. Nell’ossessione di tagliare costi prima di capire che cosa si taglia, casi del genere stanno diventando valanga, e rimediare è più difficile di quanto si dichiari: contrariamente a quanto asserito il centro per l’Ebola non ha ripreso veramente a funzionare.
Soprattutto, Trump e i suoi sembrano non avere compreso che il potere, anche se lo si vuole usare per i peggiori dei fini, anche nelle dittature (e gli Usa per ora non lo sono) è una macchina delicata: richiede sempre attenzione ai dettagli, capacità di mediazione, apparati complessi, pazienza. Altrimenti, passato il momento dei diktat e finito il silenzio degli avversari, un potere ridotto a pura prepotenza rischia di mostrare tutte le sue fragilità.
Così, deciso a imporre all’Ucraina la sua avidità per le terre rare e le condizioni “di pace” di Putin, Trump si è trovato alla fine ad abbaiare a Zelensky soprattutto la sua rabbia. Quella di chi ha trovato qualcuno che per quanto aggredito e insultato non piegava subito la testa. Una rabbia tanto più pericolosa perché svela la realtà di uomini vendicativi, meschini, narcisi fino al ridicolo.
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