L’Atlantico si allarga: perché l’Italia deve guardare subito a Cina e India

Dazi Usa, stallo Ue, crescita asiatica: l’economia globale cambia traiettoria e l’Italia rischia di restare ancorata al passato. Serve una strategia di export verso i nuovi motori del mondo

Paolo CostaPaolo Costa

L’Atlantico continua ad allargarsi, e non si tratta di geografia fisica. La frattura tra Stati Uniti ed Europa, accelerata dalle politiche di Donald Trump, sta ridisegnando gli equilibri economici globali con conseguenze che l’Italia non può più permettersi di ignorare.

I dazi al 15% sui prodotti europei rappresentano molto più di una mossa protezionistica: sono il segnale di un possibile crescente disinteresse Usa per l’Occidente-Atlantico. Con buona pace di chi in questi anni ha esaltato i benefici di questa alleanza in chiave di opposizione sovranista al rafforzamento delle istituzioni europee.

Il “patto leonino” imposto da Trump sui dazi tra Usa e Ue – così come quello sulle spese militari Nato – sta indebolendo quella coesione economica e politico-strategica dell’Occidente che per decenni ha rappresentato anche il pilastro della politica estera italiana.

I “Machiavelli di Bruxelles” sono convinti che l’arrendevolezza sui dazi stia comprando il riallineamento di Trump sugli obiettivi strategici europei, soprattutto quelli relativi al sostegno dell’Ucraina. Un prezzo che loro immaginano provvisorio in vista d di una possibile riapertura del mercato americano quando, “passata la nottata”, Trump lascerà la presidenza Usa nel 2028. È una strategia dell’attesa che rischia però di rivelarsi fatale per l’economia italiana ed europea, se non accompagnato da una politica commerciale che guardi altrove.

La realtà è che il mercato Usa, pur rimanendo importante oggi, è destinato a contare progressivamente meno per l’Europa e per l’Italia. Mentre Bruxelles insiste su questa linea attendista, altri attori globali si stanno muovendo con maggiore pragmatismo.

L’approccio europeo a non scontentare Trump si è già rivelato controproducente nei rapporti Ue-Cina: il recente incontro di Pechino non ha prodotto miglioramenti concreti nell’apertura ai prodotti europei del mercato cinese, il mercato dell’economia che comunque guiderà l’espansione del Pil globale nei prossimi anni.

L’Ue e ancor più l’Italia hanno bisogno di correggere con urgenza il disallineamento tra l’evoluzione dei mercati mondiali e quella delle proprie esportazioni. Secondo le proiezioni più aggiornate del Fondo Monetario Internazionale e di Goldman Sachs, la Cina genererà il 32% dell’incremento del Pil mondiale da qui al il 2028, mentre l’India contribuirà per un ulteriore 27%. Insieme questi due giganti asiatici rappresenteranno quindi quasi il 60% della crescita economica globale.

Al contrario, l’Unione Europea – a meno di un radicale allargamento ed approfondimento del suo mercato interno fino ad oggi osteggiato da governi sovranisti e lobby monopolistiche – contribuirà solo per l’8% all’incremento del Pil mondiale, mentre gli Stati Uniti si fermeranno al 16%. È un ribaltamento epocale che dovrebbe riflettersi su qualsiasi strategia di politica economica lungimirante.

Oggi l’Unione Europea assorbe il 45% dell’export italiano mentre gli Usa ne accolgono il 10,4%. La Cina, nonostante il suo peso crescente nell’economia mondiale, riceve appena il 2% delle nostre esportazioni mentre l’India si ferma a un misero 1%.

Il “disallineamento strategico” è drammatico. Il gap tra il peso di Cina e India nella crescita mondiale (59%) e la quota delle esportazioni italiane verso questi mercati (3%) raggiunge i 56 punti percentuali. In termini di opportunità mancate, significa che l’India – che genererà più di un quarto della crescita economica mondiale – riceve un volume di esportazioni italiane 27 volte inferiore al suo potenziale.

È come se un investitore concentrasse il 45% del proprio portafoglio su titoli destinati a crescere dell’8%, ignorando completamente quelli con prospettive di crescita del 32% e del 27%. Lo “schiaffo” americano dei dazi al 15% deve farci aprire gli occhi, ma non solo per leccarci le ferite. Deve invece spingere verso una diversificazione urgente dei mercati di esportazione. Una strategia dalle caratteristiche facilmente individuabili proprio confrontando i dati sulla distribuzione dell’incremento del Pil al 2028 con quelli della attuale composizione geografica delle esportazioni italiane.

L’India rappresenta la priorità assoluta: con un potenziale di crescita 26 volte superiore al peso attuale nelle esportazioni italiane, Delhi offre opportunità straordinarie per la nostra economia. I macchinari per uso speciale, i mezzi di trasporto e gli apparecchi elettrici sono esattamente i comparti dove l’eccellenza italiana può trovare spazio in un mercato da 1,4 miliardi di abitanti in rapida modernizzazione.

Anche la Cina, nonostante le tensioni geopolitiche, mantiene un potenziale di crescita 15 volte superiore alla presenza attuale dell’Italia. Macchinari industriali, prodotti di lusso e tecnologie green rappresentano i settori più promettenti per un riposizionamento strategico. L’Italia non può più permettersi di restare ancorata alla nostalgia atlantica.

Gli Stati Uniti rimarranno un partner importante, ma il futuro dell’economia mondiale si sta scrivendo in Asia. Mentre i “Machiavelli di Bruxelles” aspettano il 2028 sperando in un ritorno al passato, le imprese italiane dovrebbero già proiettarsi verso i mercati che domineranno il XXI secolo. La diversificazione non è solo una necessità dettata dai dazi americani, ma una strategia di sopravvivenza in un mondo multipolare dove il baricentro economico si sta spostando verso Oriente. L’Atlantico continuerà ad allargarsi, ma per l’Italia questo potrebbe rappresentare l’opportunità di scoprire oceani ancora più vasti e promettenti. 

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