Qualcosa si muove ma i problemi restano: gli inutili piccoli passi sul clima

Solo il minacciato strappo finale degli europei ha consentito alla Cop30 (Conferenza delle Nazioni Unite) chiusasi a Belém, in Brasile, di non segnare un passo indietro rispetto all’ambizione di rafforzare in modo ragionevole il patto globale 

Marco ZatterinMarco Zatterin
La sessione plenaria di chiusura della Cop30 a Belém in Brasile (foto Epa / Alves)
La sessione plenaria di chiusura della Cop30 a Belém in Brasile (foto Epa / Alves)

Doveva andare meglio, poteva andare peggio. Solo il minacciato strappo finale degli europei ha consentito alla Cop30 brasiliana chiusasi sabato a Belém di non segnare un passo indietro rispetto all’ambizione di rafforzare in modo ragionevole il patto globale contro il cambiamento climatico.

La messa al bando dei combustibili fossili – nonostante la recente pubblicazione degli studi che indicano il superamento della soglia di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali – è uscita dalla porta del comunicato finale per poi rientrare dalla finestra sotto forma dell’impegno di riprendere il discorso fra un anno, all’edizione numero 31 della Conferenza che si svolgerà ad Antalya, in Turchia, con l’egida dell’Australia.

Nei prossimi mesi si discuterà sul se e come liberarsi gradualmente dalle abitudini petrolchimiche e come proteggere le aree più a rischio del pianeta. Venerdì si era sul punto di arenarsi. Invece la fiamma resta accesa.

Il Clima ha giocato sinora un campionato di sole partite in trasferta e da un anno, con la rielezione di Trump, le cose si sono fatte ancora più ardue. Gli Stati Uniti sono usciti dagli Accordi di Parigi, il patto del 2015 con cui 194 stati si sono votati a limitare l’aumento della temperatura media globale a un grado e mezzo entro la fine del secolo. Le autorità brasiliane, padrone di casa, hanno affrontato il dossier senza convinzione, mentre la Cina non ha svolto un ruolo risolutivo.

Il risultato è che la dote finanziaria definita all’ultimo istante non è quella che ci si attendeva, 120 miliardi di dollari l’anno di qui al 2035 in luogo dei 360 che gli esperti ritengono imprescindibili. E che la protezione delle foreste pluviali è stata a malapena menzionata.

Qualcosa si muove, ma i problemi restano. Lo dice il meteo impazzito, le inondazioni più frequenti, gli eventi estremi che ci lasciano senza fiato. La cura è complicata dall’ordine mondiale che cambia, dalle guerre e dalle tensioni fra stati che si diffondono drammaticamente, dalla disinformazione crescente. Americani e sodali frenano, eppure la maggior parte dei Paesi avanzati – Europa in testa – ritiene che non si possa restare a guardare, che sia necessario avanzare ascoltando la scienza, difendendo il multilateralismo e la cooperazione con i partner mondiali, quelli deboli prima di tutto. In due parole, è “il contrario del trumpismo” che, ogni giorno, trova nuovi sostenitori e rende sempre più in salita la strada verso la nostra salvezza.

Il clima non migliorerà negandone il mutamento. E nulla succederà a costo zero perché la transizione richiede investimenti e strategia lungimiranti, attenzione ai cittadini e alle imprese. È una questione di priorità che vanno attuate senza incertezza nel pieno rispetto di chi, come l’industria e l’agricoltura, ha vissuto a lungo senza essere costretta alla consapevolezza dei danni che il nostro stile di vita produce.

La stragrande maggioranza degli scienziati ritiene che la realtà e la portata degli choc comporti che i piccoli passi avanti non possano essere sufficienti. Così i governi devono confrontarsi con la dinamica della crisi climatica e muoversi con coscienza, pensando alle nuove tecnologie e, magari, a un nuovo umanesimo. Se le parole non diventeranno fatti, le conseguenze saranno terribili.

E nessuno potrà dire di non essere stato avvertito.

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