Educazione sessuale, i limiti della scuola

Non basta parlare di educazione “sessuo-affettiva” per tradurla nella pratica scolastica. Il problema è lì sotto gli occhi di tutti eppure viene messo ai margini

Pier Aldo Rovatti
Un gruppo di ragazze fuori da scuola
Un gruppo di ragazze fuori da scuola

Una delle parole più usate in questi giorni è la parola “educazione”, collegata alla nostra scuola attuale: una scuola che non sembra volersi assumere la responsabilità e l’impegno che l’educazione dovrebbe comportare. Per scuola intendo soprattutto la scuola primaria e quella secondaria, in particolare la primaria, quella che di solito chiamiamo “elementare”.

Nella primaria, ma poi anche parzialmente in quella secondaria, sono le famiglie e gli insegnanti a entrare in rapporto e spesso in collisione: a chi tocca l’educazione? Qual è il ruolo della famiglia? E se la famiglia non è più quasi mai quel nucleo dorato che riesce a produrre nei figli un buon insegnamento verso la vita, cioè che è in grado di produrre un’educazione? La scuola è in grado di sopperire a una simile mancanza?

Sono domande non così ovvie come sembrano, perché pochi oggi ritengono che la famiglia – posto che esista una effettiva famiglia – propende verso una chiusura protettiva, proprio mentre il figlio piccolo sta per entrare in una dinamica sociale che gli apre nuovi orizzonti, e fra questi fin da subito si presenta quell’orizzonte che di solito chiamiamo “sessualità”. Questo orizzonte resta di solito silenziosamente murato tra le pareti di casa, mentre – quando inizia la scuola – avviene un salto all’esterno, la scoperta di un universo affettivo molto diverso da quello famigliare.

È facile constatare che la scuola non è preparata ad accogliere e rendere palpabile, esplicito, un simile salto, evidentemente implicito nella parola “educazione”, ma altrettanto evidentemente lasciato in penombra, quasi fosse meglio non parlarne come se non avesse a che fare con questa impegnativa parola. Certo, ogni insegnante trasmetterà, senza neppure volerlo, il proprio atteggiamento verso le esperienze sessuali dei suoi alunni, ma la scuola come titolazione sembra piuttosto tenere gli occhi abbassati su questa delicata faccenda, come se fosse un problema che riguarda piuttosto le famiglie.

Non è neppure un palleggio in cui ciascuno rimanda la palla dall’altra parte della rete: la scuola rifiuta una responsabilità sul problema, che infatti di solito non trova ascolto nell’idea scolastica di educazione. Mi sembra che sia proprio di questo che si sta cominciando adesso a parlare: una questione che è lì da sempre e che viene a galla perché le famiglie agiscono sempre meno come il contenitore del problema sessuale.

Per convincersi di questo buco educativo, di una simile lacuna nell’idea normale di educazione scolastica, basterebbe osservare come viene adoperato questo termine, che resta di solito caratterizzato come “educazione civica” e soprattutto con il titolo di “educazione fisica”.

Insomma è come se la scuola si prendesse in primo luogo il compito di contribuire a educare il proprio corpo, nelle apposite palestre o all’aperto, e, secondariamente, fornisse alcuni elementi capaci di garantire un’abitabilità della società in cui gli studenti vivono, trovando un ritorno nel primo caso, e fornendo solo qualche traccia di “cittadinanza”, come se non fosse suo compito procedere oltre.

Di educazione sessuale si parla poco o nulla e così accade che il problema, che è lì sotto gli occhi di tutti, viene secondarizzato e messo ai margini dell’idea di educazione.

Quello della sessualità non viene preso sul serio come problema, e solo adesso la nostra scuola comincia ad accorgersene, attraverso segnali che, però, non sembrano portare al punto effettivo.

Non ci vuole molto a capire che non basta lanciare l’esigenza di una educazione “sessuo-affettiva” quando nulla di tutto ciò è traducibile nell’attuale pratica scolastica: basterebbe quel “sessuo” con cui si vorrebbe intestare una simile novità educativa per rendere poco comprensibile tale proposta.

“Sessualità e affettività”, ottimo! Ma come passare dal titolo a una pratica effettiva? Come delimitare in questo modo un problema che dovrebbe attraversare la formazione di ogni insegnante e che quindi richiederebbe un rimpasto – diciamo così – di ciò che significa far lezione a dei ragazzi, mettendoli finalmente di fronte non a nozioni da apprendere ma a modi di vivere?

Forse la scuola non ha questo compito? Allora, in che cosa consiste il suo compito, il suo impegno educativo? Basterebbe appunto ragionare sulla parola “educazione” per rendersi conto di quanto siamo, per dir così, “barbarici” nell’affrontare nelle ore di lezione un simile compito. Se “educare” significa tirar fuori, che cosa vogliamo tirar fuori da noi stessi quando insegniamo, in modo che chi ci ascolta almeno intuisca che cosa stiamo cercando di fare. —

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