Ingiusto e disumano punire la madre che investe il figlio

Di fronte al dolore di un genitore e al senso di colpa che certamente porterà con sé negli anni futuri, è lecito chiedersi se abbia senso che a fatti di questo genere, che sono però anche delitti espressamente puniti dalla legge (art. 590 e 583 del Codice penale), debba seguire anche la sanzione penale

Bruno Cherchi*

Una mamma mentre era alla guida della sua autovettura ha investito il suo bambino di diciotto mesi provocandogli delle lesioni gravissime che, riassumendo la terribile descrizione tecnica operata dai medici del reparto di pediatria che lo hanno avuto in cura, comporteranno per il minore delle menomazioni in diversi distretto corporei, anche cerebrali, con menomazioni fisiche e psichiche irreversibili.

Lo svolgimento dei fatti non evidenzia dubbi sulla dinamica, che è stata confermata dalla testimonianza della nonna materna presente ai fatti.

Facile immaginarsi lo stato di disperazione della giovane mamma e l’evidente sofferenza per quanto accaduto e il peso che l’accompagnerà tutta la vita per avere distrutto quella del figlio e non solo, essendo intuitivo immaginare le ricadute che l’incidente potrà avere su tutti i componenti della famiglia coinvolta.

Di fronte al dolore di un genitore e al senso di colpa che certamente porterà con sé negli anni futuri, è lecito chiedersi se abbia senso che a fatti di questo genere, che sono però anche delitti espressamente puniti dalla legge (art. 590 e 583 del Codice penale), debba seguire anche la sanzione penale.

Nel caso specifico ricordato, la domanda se l’è posta lo stesso pubblico ministero milanese a cui era stato assegnato il procedimento che ha chiesto l’archiviazione evidenziando, peraltro, alcune possibili soluzioni tecniche subordinate.

Il quesito però interroga tutti perché situazioni analoghe, nella loro eccezionalità, non sono purtroppo isolate e la cronaca, ma anche talvolta la conoscenza diretta degli attori, ci rende noti, soprattutto in tema di incidenti stradali, episodi analoghi in cui il senso comune si chiede se alla pena che accompagnerà per tutta la vita chi ha causato quell’evento debba aggiungersi la punizione statuale.

Non è possibile approfondire in questa sede tutti gli aspetti della funzione della pena, che da sempre ha interessato gli studiosi e la giurisprudenza, con interventi di grande spessore e con posizioni anche molto variegate. In via di prima approssimazione, possiamo però dire che, a grandi linee, la punizione penale mira a dare una retribuzione per il danno provocato dal comportamento illecito e comunque a riportare il reo, attraverso la sanzione, a meglio e più opportunamente valutare un più corretto agire sociale.

Da questa premessa sembrerebbe possibile concludere che le ipotesi di reato di cui trattiamo potrebbero non avere queste giustificazioni a fronte, come già osservato, della pena, a vita, insita nel dramma vissuto dalla mamma.

Anche dal punto di vista della deterrenza e cioè della finalità di evitare che si ripetano fatti che producono gravi danni ai consociati, obiettivo insito nella punizione penale di un soggetto, nel fatto di cui esemplificativamente ci stiamo occupando non si rileva alcuna necessità di un intervento punitivo essendo del tutto evidente che quella madre, e le altre nelle stesse situazioni, non hanno certo necessità che una norma penale gli ricordi obblighi naturali e l’intervento repressivo appare non solo non necessario, ma addirittura ingiusto.

Come è stato autorevolmente sostenuto, in questi casi la punizione appare quindi non solo ingiusta, risultando più un formale ossequio alla previsione di una norma che nella sua formulazione generale ed astratta è certamente corretta, ma anche illogica e disumana quando venga calata e applicata nella fattispecie concreta.

Il nostro ordinamento costituzionale, ma anche il diritto unionale recepito dal nostro Paese, hanno da tempo posto l’accento sulla necessità della reintegrazione sociale del reo (art. 27 della Costituzione), che certo rappresenta un fondamentale punto di arrivo della legislazione che, nel corso di un lungo e secolare ripensamento e approfondimento, ha da tempo abbandonato la legge del taglione.

Dopo aver fissato il principio per cui la pena deve tendere alla necessaria rieducazione del reo, lo stesso art. 27 della Costituzione, stabilisce il divieto di trattamenti inumani, che obbligano il legislatore a non consentire modalità di pena che siano lesive del rispetto della persona come le pene corporali o forme di tortura.

Si tratterebbe quindi di poter consentire al giudice, in applicazione del principio di “umanità” della pena, di evitare di giungere alla sentenza di condanna in ipotesi quali quella di cui ci occupiamo, ogni qual volta il soggetto abbia già subito una accertabile afflizione, una poena naturalis, per cui, come è stato autorevolmente evidenziato «l’ulteriore sanzione sarebbe non solo sproporzionata per eccesso, ma addirittura inumana».

Non sembra praticabile, come pure sembra convenire la Procura milanese, sia nel caso specifico oggetto dell’indagine sia in ipotesi analoghe, una valutazione di “irrilevanza del fatto” (art. 131 cpp) perché espressamente escluso dal legislatore nella Relazione di accompagnamento alla previsione normativa.

D’altra parte, non può sottacersi che di recente alla Corte costituzionale è stato già sottoposto un caso è analogo in cui si trattava di una ipotesi di imputazione per omicidio colposo con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro ascritta a uno zio per la morte del nipote suo dipendente. La decisione (sentenza 48/2024) ha evidenziato come il concetto di poena naturalis, per la sua ampiezza, non consentiva d’individuare principi costituzionali che potessero risultare parametro utile per accertare la correttezza delle norme che incriminavano l’evento colposo.

La via maestra resta di certo l’intervento del legislatore, che meglio e più puntualmente potrebbe regolare fatti colposi che, pur gravi nelle conseguenze e quindi punibili con sanzione penale, non necessitino in concreto dell’intervento repressivo dello Stato per la “punizione naturale” già sopportata dal reo.

In tal modo dando concreta attuazione al fondamentale principio che prevede che la pena sia sempre proporzionale e in effetti attuativa dei principi d’umanità che, in una società civile, non possono mai essere dimenticati.

*magistrato

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