Il cortocircuito tra politica e inchieste giudiziarie

La vicenda di Milano investe i delicati equilibri tra i poteri dello Stato: è il cortocircuito tra potere giudiziario e  politico a riproporsi a ogni passaggio chiave della vita del paese

Fabio BordignonFabio Bordignon
Beppe Sala (Ansa)
Beppe Sala (Ansa)

Pronti, via e la campagna elettorale per le Regionali è stata subito inquinata dagli sversamenti politico-giudiziari. Da Milano l’attenzione si sposta su Pesaro. E quindi sulle Marche, che sarà la prima regione a recarsi alle urne (insieme alla Valle d’Aosta).

Ma non è solo l’integrità della corsa dei governatori ad essere in gioco, nel nuovo cortocircuito tra poteri. Non è nemmeno il caso di ricamare troppo sul timing tra candidatura e avviso di garanzia, nella vicenda che coinvolge l’ex-sindaco di Pesaro, Matteo Ricci. Altro che giustizia a orologeria. È il cortocircuito tra potere giudiziario e potere politico a riproporsi, puntualmente, a ogni passaggio chiave della vita del paese.

Giustizia e politica, nello scontro perdiamo tutti
Fabio BordignonFabio Bordignon

Dopo la Palazzopoli milanese è il turno dell’Affidopoli pesarese: ultimo di una straziante serie di neologismi coniati, per analogia, dai media. Nei quali il suffissoide “poli” – spiega l’Accademia della Crusca – perde il significato di città, come nell’originale Tangentopoli: città delle tangenti. E indica semplicemente la corruzione. La città in questione, però, non è Milano, o Pesaro (la mia città). È la Polis da cui origina la politica. Che diventa così sinonimo di malaffare.

Del resto, se l’imputazione di Ricci è quella di avere ottenuto una «utilità non patrimoniale» attraverso benefici «in termini di accresciuta popolarità e consenso», è, in un certo senso, la politica stessa a finire sul banco degli imputati, come ha osservato Claudio Cerasa su Il Foglio. Tutt’altra faccenda, naturalmente, è se la costruzione del consenso avviene attraverso la realizzazione di opere «con modalità illegittime», come si legge tra le accuse.

Su questo, la giustizia farà il suo corso. Con i suoi tempi, in perenne tensione con il calendario politico-elettorale. Andranno accertate le responsabilità dei singoli. Come recitano le formule di rito, «l’avviso di garanzia non è una condanna», oppure «esprimiamo fiducia nel lavoro dei magistrati». Parole, queste ultime, che nelle dichiarazioni degli indagati spesso tradiscono sentimenti opposti.

Potremmo, allora, mettere in fila la lunga lista di implicazioni che fanno del voto marchigiano un caso rilevante su scala nazionale. Perché sarà la prima regione a votare, con possibile effetto domino sulle altre. Perché si tratta di una regione un tempo “rossa”, ma governata oggi da un presidente molto vicino a Meloni. Perché la vicenda Ricci rimette a tema il rapporto tra la sinistra, il Pd e la questione giustizia. Tra il M5s e la sua anima giustizialista. Nonché la tormentata storia tra i due promessi alleati. E perché l’esito del voto, in particolare a Pesaro, dove Ricci è radicatissimo, ci dirà molto sulle trasformazioni di un certo modello di regolazione politico-territoriale.

Oltre a tutto questo, però, c’è molto di più. Perché le vicende di questi giorni investono i delicati equilibri tra i poteri dello Stato. La qualità della democrazia. Il significato stesso della politica. Che, in democrazia, riguarda anche la raccolta del consenso. Ancor prima, è impegno per il bene comune. Per il bene di quella Polis diventata sinonimo di qualcos’altro. Di una città che non è Milano, Pesaro o la vostra città. È la nostra città.

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