I distretti e la necessità di investire
L’economia del legno-arredo deve fare il salto dalle filiere agli intangibili, dalle relazioni produttive alla capacità di generare e distribuire saperi, dalla subfornitura efficiente ai modelli di open innovation

Mentre in Italia si continua a discutere di Industria 5.0, di incentivi fiscali e di percentuali di credito d’imposta, si perde di vista una realtà con cui siamo sempre più chiamati a fare i conti.
Il tessuto imprenditoriale diffuso, artigiano, e capillare che ha fatto grande il Nord Est, si sta erodendo. Non è una percezione, ma un dato di fatto. Come ho mostrato nel mio libro “Innovatori Outsider” elaborando dati Istat, dal 2009 al 2021 l’Italia ha perso quasi 60 mila imprese manifatturiere, pari a una contrazione del 19 per cento. La riduzione riguarda soprattutto le micro e le piccole, che scendono rispettivamente del 22 e del 16 per cento, mentre resistono le medie e crescono le grandi. Una dinamica che si inserisce in un trend di lungo periodo già certificato dall’Ocse. Nel 1970 l’industria italiana assorbiva 44 addetti ogni 100 occupati, nel 2022 sono diventati 18. Un calo generalizzato in tutto il G7, ma che in Italia assume un significato particolare, perché segna se non la fine quanto meno la piena maturità del modello diffuso e democratico dei distretti.
Che cosa significa questa profonda transizione per uno dei verticali storici del Nord Est, il settore del mobile? Anzitutto, ci mostra come i distretti si siano trasformati in sistemi industriali più concentrati. È una selezione in parte naturale, perché le imprese artigiane hanno sofferto e continuano a patire la competizione globale e la rivoluzione digitale, a causa di un limitato capitale umano e finanziario per investire.
Dall’altro lato, le medie e grandi hanno tracciato un percorso diverso, diventando i veri motori dell’export e preservando capacità innovativa. Ma la questione imprenditoriale rimane. Se sparisce il vivaio, sparisce l’imprenditorialità. Michele Faggioli, ceo della multinazionale bellunese Luve, lo ricorda con chiarezza: «Ogni grande impresa è stata piccola».
Qui si inserisce anche il report elaborato da Adacta per ilNordestEconomia, che evidenzia come le imprese maggiori del legno-arredo presentino indici di redditività positivi, con margini Ebit in crescita nell’ultimo decennio. Una buona notizia che conferma la solidità di un gruppo di aziende leader. A dispetto di questa tendenza positiva, rimane un dubbio di fondo: possibile che un settore maturo come il mobile del Triveneto sia rimasto immune dalla contrazione della base manifatturiera nazionale, che ha perso 315 mila addetti nello stesso periodo? Improbabile. È più realistico pensare che anche nel mobile la tecnologia abbia sostituito lavoro manuale e che la tenuta dei bilanci delle grandi non racconti con dettaglio di analisi le difficoltà della coda lunga di piccole e microimprese.
All’interno di questo scenario il rischio è duplice. Si perdono competenze tacite, governate dalle maestranze artigiane, che una volta disperse non si recuperano. E si perde quella spinta democratica che è stato il tratto distintivo dei distretti, un meccanismo che distribuiva rischi e ricchezza sul territorio. Da dove possiamo partire per programmare il futuro del mobile nei vari distretti? Oggi le imprese leader rimangono al centro del nuovo modello industriale ed è dunque inevitabile che si parta proprio dalla loro guida. Tuttavia, il cambio a cui sono chiamate è tutt’altro che scontato: se nel passato hanno saputo articolare e trainare dense filiere di subfornitura su scala locale, oggi devono guidare la partita dell’economia della conoscenza.
Servono anzitutto nuovi strumenti. Non più soltanto filiere produttive e asset tangibili, ma reti di intangibili e meccanismi che abilitino processi di spillover di conoscenza. È proprio nella diffusione della conoscenza che si crea il vero valore aggiunto, componente fondamentale per sostenere la redditività delle imprese e la ricchezza di un territorio. Ed è proprio con questo focus strategico in mente che si deve iniziare a programmare il futuro del mobile da Verona a Udine.
L’economia del legno-arredo deve fare il salto dalle filiere agli intangibili, dalle relazioni produttive alla capacità di generare e distribuire saperi, dalla subfornitura efficiente ai modelli di open innovation. Ed è proprio in questo contesto che il Nord Est mostra ancora evidenti ritardi. Le collaborazioni tra imprese e università restano episodiche e poco istituzionalizzate, i modelli di governance familiare faticano ad aprirsi a investitori privati, il corporate venturing, cioè lo scouting e l’investimento in startup, è pressoché inesistente, gli investimenti in capitale umano qualificato rimangono inferiori rispetto a ciò che accade a Sud del Po.
Sono queste le sfide che attendono i campioni del legno-arredo. Non solo in ottica di responsabilità verso il territorio, ma soprattutto come condizione per preservare la loro stessa competitività. Gli investimenti di lungo periodo si fanno quando le cose vanno bene, e questo è il momento. Sedersi e glorificare i risultati attuali sarebbe pericoloso.
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