Il nostro virus quotidiano della follia e della violenza
Monta il timore che la distruzione sia diventata la vera levatrice del mondo. La distesa di divise, giubbotti e caschi rovinati dall’esplosione: immagine che evoca l’abisso


Quando è apparsa la notizia della tragedia di Castel d’Azzano ho creduto che fosse stato commesso un errore. Ho pensato di essere di fronte a una confusione geografica. Nella mente mi sembravano eventi possibili solamente nell’America profonda, in quella miscela di luoghi ai margini dei grandi flussi urbani e dove si coltivano distese di solitudine e follia.
Lì dove vivono i naufraghi di tutte le modernità, impauriti dal mondo che galoppa e convinti che l’antidoto siano settarismi, suprematismi e un paio di fucili automatici. Naturalmente moderni.
Invece è accaduto qui, accanto a noi.
Agricoltori, tre fratelli, terra veronese e un attentato mostruoso. Coinvolti, in un unico evento, mondi simbolici: il mondo agricolo, una famiglia e gli uomini dello Stato, quelli impiegati per sostenere e difendere le leggi, cioè le regole del vivere collettivo.
Le indagini porteranno informazioni più precise e si capirà quale sia stato il percorso di questo fiume carsico di distruzione e perché sia emerso in questo modo. Servirà per capire se fosse un pericolo prevedibile, se quelle morti siano un tragico evento che si poteva evitare.
O se invece, come vediamo in questi ultimi mesi di violenze ampie come tsunami, si sia radicata ovunque la convinzione che la distruzione è la vera levatrice del mondo. Da impiegare a ogni livello: nei grandi conflitti o negli inciampi nella quotidianità. Sembra che lo stesso “virus” guidi la mente di chi ha sparato al volto di un ragazzo a Palermo, di chi faccia esplodere i carabinieri o di chi bombardi i civili.
Viene da chiedersi se si sia definitivamente inserito tra i neuroni della specie umana la convinzione che il conflitto, cioè la via di fuga violenta, sia la più efficace se non l’unica delle soluzioni. Che sia oramai tramontato il tempo per guardarsi in faccia, ascoltare, ragionare, costruire percorsi in cui non la morte, ma il vivere, sia l’obiettivo.
Questo virus, che deve aver corroso i tre fratelli veronesi (e si vedrà se qualcuno non ne abbia saputo cogliere i sintomi e prescrivere una medicina), non ha il potere di risolvere nulla. È solo un tuffo dentro il buio di un abisso: lo rivelano simbolicamente le immagini che mostrano le divise, i caschi, le armi, i giubbotti dei carabinieri travolti dall’esplosione.
Una distesa sconsolata di vite perdute, ferite inflitte, valori dissipati. Morti sul lavoro che incombono come un tragico sudario nero dopo l’esplosione di un’insensatezza a cui non riuscivamo a pensare.
Chi documenta e scrive di questi eventi mostra e racconta, quotidianamente, storie diverse, ma sorelle, dove a vincere è, purtroppo, l’atto violento, il delirio assassino.
Ma in che futuro potrà portarci un mondo tanto attorcigliato?
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