Droni e armi tecnologiche, l’Ue è senza difese: cinque anni per sigillare le frontiere

Si chiama The Defence Readiness Roadmap 2030 l’ambizioso piano articolato su quattro pilastri, il più importante dei quali è il “muro” contro i velivoli senza pilota: una barriera invisibile che dovrebbe impedire ogni sorvolo sul territorio comunitario. A questo si aggiungono uno “scudo aereo” e uno “spaziale”

Marco ZatterinMarco Zatterin
Un velivolo senza pilota: sempre più massiccio l'utilizzo in campo bellico dei droni
Un velivolo senza pilota: sempre più massiccio l'utilizzo in campo bellico dei droni

L’Unione europea spende quasi 400 miliardi l’anno per le sue armate di terra, cielo e mare, ma non ha una Difesa credibile. A un mese da che uno stormo di droni ha paralizzato l’aeroporto di Copenhagen nessuno ha ancora fornito una spiegazione sulla loro origine: se non è reticenza strategica, è un chiaro segnale di debolezza tecnologica, la prova che siamo impantanati nel passato e che, in caso di conflitto, saremmo con gli scarponi nel fango di una disfatta probabile.

L’aggressione all’Ucraina ha rivoluzionato il senso tecnico di ogni ostilità e fatto suonare la sveglia. Ora si conviene che la priorità è proteggere il fianco orientale e tutelarsi dalle micidiali offensive lowcost dei velivoli senza pilota, gli stessi che bombardano da tre anni Kiev e le sue provincie. Si vuole essere pronti a tutto. In particolare a un attacco russo.

La posizione presunta magica si chiama The Defence Readiness Roadmap 2030. È stata proposta giovedì 16 ottobre dalla Commissione e, se approvata dai Ventisette la prossima settimana, mira a rendere l’Ue inespugnabile in cinque anni. L’ambizioso piano è articolato su quattro pilastri, il più importante dei quali è il “muro dei droni”, barriera invisibile che dovrebbe impedire ogni sorvolo sul territorio comunitario, blindando dei confini che sinora sono stati un colabrodo. A questo, si aggiungono uno “scudo aereo” e uno “spaziale”, oltre che la fortificazione delle frontiere che guardano alla Federazione di Putin, naturalmente in sintonia con gli orientamenti transatlantici della Nato. Nel complesso, si prevede che i Paesi si coalizzino in nove settori industriali per promuovere la ricerca in comune e gli appalti congiunti. Dovranno investire di tasca propria. Bruxelles prevede di mobilitare fondi europei perché il totale della nuova spesa raggiunga gli 800 miliardi.

Si può decidere di fare come gli islandesi, non avere un esercito e farsi difendere in franchising dalla Nato. Oppure si può concedere che non c’è Stato sovrano senza armate, e allora cercare di impiegare bene i soldi dei contribuenti puntando su una forza aggregata che generi una solida e convincente deterrenza: prepararsi per la guerra se si vuole mantenere la pace. Ma questo non è stato fatto. L’Europa ha la seconda spesa planetaria in armamenti vari (dopo gli Usa, prima dei cinesi), tuttavia lo sforzo è parcellizzato, dunque non funzionante. Ad esempio, nel 2024 sui piazzali c’erano 13 diversi tipi di carri, mentre gli americani ne hanno un solo. Zero sinergia uguale massima inutilità.

Di qui il piano europeo, effetto anche del trumpismo che riposiziona gli interessi dello Zio Sam e non vuol più spedire uomini, mezzi e dollari oltreoceano. La sua realizzazione deve risultare da un inedito consenso sugli intenti congiunti (è dal 1954 che si parla di eurodifesa), quindi dall’intesa su chi sia il nemico della guerra alla quale ci si vuole/deve preparare.

Non semplice. L’estone Kaja Kallas, rappresentante per gli Esteri, assicura che «dobbiamo proteggerci dalla Russia». Altri avversari non se ne vedono, sebbene in Italia si tema il fronte Sud (Libia? Tunisia?) e nel governo c’è chi pensa che «i migranti sono più pericolosi dei tank russi». Sono punti che divergono fra le eurodivergenze nel momento delle decisioni. Cinque anni per salvaguardarsi sono un tempo breve. Ma ora che un vento gelido e pungente soffia da Est, potrebbero essere troppi.

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