Veneto e la sfida del 24 novembre: cosa rischia la Lega senza il nome di Zaia nel simbolo

L’assenza del “Doge” nel logo leghista può aprire un terremoto politico: Meloni punta al primato nel Nord, mentre Salvini teme un crollo sotto il 17%

 

Carlo BertiniCarlo Bertini

Binocoli puntati sul 24 novembre: cosa succederà in Veneto se la lista della Lega, priva del traino convinto del Doge, prendesse meno del 17% delle scorse regionali o addirittura meno del 9% delle europee 2024? Un terremoto.

E si è portati a credere che l’esclusione della parola magica “Zaia” dal simbolo leghista, chiesta dagli alleati, punti esattamente a questo: a uno scossone utile a Giorgia Meloni per poter affermare finalmente il suo primato nelle regioni del Nord, non solo in Veneto, ma anche in Lombardia e in Fvg: dove la poltrona di Massimiliano Fedriga sarà messa in palio nella prossima tratta delle candidature.

E le assenze di ieri sera all’evento-trampolino di lancio per Alberto Stefani, privato della photo-opportunity sul palco con i big della regione a lui alleati, sono sintomatiche di un piano preciso: far scontare a Salvini il “regalo” di una candidatura non meritata nelle urne da una Lega molto più magra di cinque o dieci anni fa.

Le diserzioni dei segretari regionali di FdI e Forza Italia a quello che doveva essere un «evento di coalizione», ordinate dagli stati maggiori dei due partiti, sono l’antipasto di una campagna in solitaria per il giovane condottiero della Liga veneta. Saranno pochi gli “acchiappavoti” disposti a portare acqua al mulino di Stefani, tranne i suoi candidati consiglieri. Ognuno correrà per sé, sapendo che si vince comunque.

Si capisce quanto per Salvini sia duro scegliere tra un sostegno ben visibile di Zaia alla Lega e la sua esclusione dal proscenio, tale da sgonfiare alla radice il potere del suo principale concorrente, ma foriera di guai futuri se il voto di lista andasse male. Guardando oltre, infatti, è il Pirellone il vero totem per i Fratelli d’Italia ansiosi di poggiare il cappello sulla scrivania che fu dell’azzurro Formigoni prima, dei leghisti Maroni e Fontana poi; e che un domani potrebbe essere strappata alle camicie verdi solo con pezze d’appoggio incontestabili: come una debolezza numerica della Lega, tale da piegare le resistenze degli ultimi “giapponesi” che ancora si battono per una ragione sociale superata, quella di un Carroccio federalista e autonomista, ostile alla Lega nazionalista e sovranista di Salvini.

Tanto che, malgrado il flop del generale Vannacci in Toscana, si continua a parlare di scissione leghista in salsa germanica, per splittare il partito in due, una sorta di Cdu-Csu, con Salvini da una parte e i federalisti dall’altra, disuniti alla meta.

Ma la premier ha bisogno di un Carroccio debole sì, ma non troppo da disarcionare Salvini e con lui tutto il governo. Dunque in Veneto ha accettato di arretrare non solo per non azzoppare il leader della Lega, ma anche perché ha incassato un successo politico in questa tornata di elezioni regionali: che finirà in un pareggio doloroso solo per i suoi avversari, che puntavano al “cappotto”. Per Giorgia sarà un tonico verso i prossimi appuntamenti cruciali: il referendum sulla separazione delle carriere di giugno 2026 e le politiche 2027. Lo status quo che uscirà dalle regionali, il tre a tre nella partita centrodestra-centrosinistra, è la conferma di un vento a favore, anche se la premier, per ripagarsi della rinuncia al trono veneto, metterà due ipoteche su Lombardia e Fvg: sapendo di poterle impugnare grazie alla dura legge dei numeri, questa volta disattesa soltanto per carità di patria.

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